
Pascal Acot «è diventato un guru degli storici dell’ecologia e come tale si può permettere qualche provocazione». Scriveva proprio così Repubblica nell’edizione di mercoledì 6 luglio presentando l’intervista all’«antesignano» di questo genere di studi: Acot fa «provocazioni». Del resto se una certa lettura allarmista e antropocentrica del cambiamento climatico è diventata una religione, chi ne mette in dubbio i dogmi al massimo può “provocare”, mai scalfire. Nemmeno se si tratta, appunto, di un indiscusso «guru» della materia, sulla quale si esercita come ricercatore e docente alla Sorbona di Parigi almeno dal 1986.
Nonostante i tentativi di Repubblica di ridurne la portata, comunque, in tanti hanno notato (non senza un po’ di ironia) il contrasto tra questa intervista a Pascal Acot e la consueta narrazione del quotidiano romano, di solito acriticamente appiattita sulla predicazione green.
In effetti quello tra Eugenio Occorsio e Pascal Acot è un colloquio davvero interessante, quasi un bel ripasso per i lettori di Tempi. La perfetta conferma del fatto che molte importanti obiezioni esistenti rispetto all’imperativo della transizione ecologica che parte della comunità internazionale si è autoimposta non sono tranquillamente liquidabili come “ecoscetticismo” o addirittura “negazionismo climatico”: quelle stesse obiezioni, infatti, le hanno per primi i «guru» della climatologia.
Calma con le conclusioni
E davvero l’intervista di Repubblica a Pascal Acot ha il merito di sintetizzare efficacemente e mettere in fila quel che non funziona dal punto di vista scientifico nel culto ecologista gretesco, tutto «slogan gridati» e zero risposte alle «tante domande» che ancora ci sono su ambiente e clima, commenta lo studioso. Peccato solo per il titolo che – diciamo così – non coglie esattamente il punto sollevato dall’intervistato (“Sos clima. Acot: ʻAlpi, Alaska, Estremo Oriente nel mondo sempre più disastri. Ora gli scettici dovrebbero tacere’”). Ma tant’è.
Si parte dalla tragedia della Marmolada. È indubbio che «il riscaldamento della temperatura» c’entra con il distacco della massa di ghiaccio e rocce che domenica 3 giugno ha travolto e ucciso 10 escursionisti, spiega Acot. Ma da qui a concludere apoditticamente che è «colpa dell’uomo» (vedi Jeffrey Sachs sempre su Repubblica) ce ne passa, secondo il «guru» della Sorbona. La fretta di imputare al comportamento umano un fatto così inspiegabile, come abbiamo scritto qui, è un modo sbrigativo per non dover fare i conti con un fattore ineliminabile dell’esistenza, il mistero. Ma non solo, aggiunge adesso Acot: è anche una posizione indimostrata dal punto di vista scientifico. Vediamo perché.
Il ruolo dell’attività solare
Punto uno. Il cambiamento climatico è reale, oggi «la temperatura media del pianeta è più alta di 1,2 gradi rispetto al 1880, l’epoca pre-rivoluzione industriale», spiega Acot. Ed è reale anche l’aumento della concentrazione di Co2: «Il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera mondiale è salito dello 0,039 per cento che possiamo tutt’al più arrotondare allo 0,04 per cento». Tutto ciò è innegabile. Come è innegabile che basti «una minima variazione nel clima perché si sviluppino effetti disastrosi a cascata». Chiaro. Ma è veramente «tutto dovuto ai comportamenti umani?», domanda Occorsio. Risposta di Acot:
«Qui sta il punto. Che ci sia una componente umana non lo mette in dubbio più nessuno. Però con altrettanta lucidità dobbiamo chiederci se ad essa non si affianchi un’attività solare analoga a quella che per centinaia di milioni di anni ha regolato il passaggio dalle epoche di surriscaldamento a quelle di glaciazione, come documentato dagli storici del clima, attività che potrebbe addirittura avere un ruolo preponderante».
È un’osservazione che riecheggia quanto scritto ripetutamente su queste colonne, per esempio da Ernesto Pedrocchi, il quale spiega che i modelli climatici che vanno per la maggiore «sovrastimano l’effetto della Co2, mentre sottostimano l’effetto di elementi naturali, in particolare del sole». Lo stesso ripete da anni – e lo ha fatto anche in una bella intervista a Tempi – uno studioso come Franco Prodi: «La conoscenza attuale del sistema clima non consente di separare con precisione l’effetto antropico dalle altre cause naturali di cambiamento che hanno sempre operato prima dell’avvento dell’epoca industriale e che continuano a operare». Peccato però che Prodi sia dileggiato come «faro dei negazionisti climatici», niente etichetta di «guru» per lui.
In fondo – faceva notare Francesco Bernardi, un altro che i numeri li sa mettere in fila, ingegnere nucleare e imprenditore nel settore energia – concludere che tutto dipenda solo e soltanto dall’uomo, compresi i cambiamenti climatici e le catastrofi ad essi collegate, è «mancanza di umiltà». Riconoscerlo non è fatalismo, ma la condizione per affrontare questi problemi con realismo.
Il vizio del foro scientifico dell’Onu
Punto due. Ma allora perché la comunità internazionale è così entusiasta nello sposare le tesi più severe rispetto alle responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici? L’Onu è in prima fila in questa campagna.
Ecco, l’Onu. Il problema è esattamente che «il foro scientifico dell’Onu […] ancora non ci ha dato una spiegazione esauriente» sulle cause del cambiamento climatico, e su quanto pesi realmente l’attività umana rispetto ai fattori naturali. E «credo di sapere perché», dice Acot.
Il motivo, continua lo studioso, è che a capo di questo gruppo, composto da duemila scienziati, c’era da principio «Robert Watson, un politico puro che ha avuto alte responsabilità alla Casa Bianca e alla Banca Mondiale». E dopo di lui è toccato a «Rajendra Pachauri, un ingegnere ferroviario». Poi «altra sostituzione» ed è arrivato «il sudcoreano Hoesung Lee», che è «un economista, responsabile della strategia di sviluppo di Exxon».
Insomma. Andate a rileggere quello che dice il fisico americano Steven Koonin, già consigliere di Obama, oggi a sua volta marchiato come negazionista climatico solo per aver spiegato per filo e per segno quanto osservato da Acot. E cioè che sono proprio i rapporti ufficiali come quelli dell’Ipcc dell’Onu a mettere in guardia, dati alla mano, rispetto alle conclusioni più catastrofiste e accusatorie del comportamento umano. Peccato che queste belle analisi scientifiche finiscano poi stravolte, per mano dello stesso Ipcc, nelle sintesi destinate a giornalisti e decisori, allo scopo di assecondare lo storytelling green.
I dubbi sulle contromisure prese dall’Ue
Punto tre. Le costosissime misure che stiamo mettendo in campo per rimediare al clima impazzito servono? Risponde Acot:
«C’è tanta di quella indefinitezza che ancora non esiste la prova scientifica finale che alcune misure vincolanti prese in Europa a valere sui prossimi decenni, molte delle quali con conseguenze penalizzanti sulle popolazioni più povere, siano davvero utili».
E qui l’elenco di avvertimenti che riecheggiano le parole di Acot pubblicati su queste colonne sarebbe infinito. A partire dai numerosi interventi di Bjørn Lomborg per arrivare alle tante analisi di iniziative velleitarie come gli Accordi di Parigi e le Conferenze Onu sul clima. Senza dimenticare ovviamente il famigerato, costosissimo Green Deal europeo, il cui unico effetto rischia di essere la devastazione dell’economia del Vecchio Continente, visto che all’ambiente non porterà benefici apprezzabili in assenza di uno sforzo analogo da parte degli altri grandi inquinatori del pianeta (Usa e Cina in testa).
La domanda sul passaggio alle auto elettriche
Punto quattro. O tre bis, poiché si parla sempre di misure autolesioniste europee: l’abbandono forzato delle automobili con motori diesel e benzina entro il 2035 per passare all’elettrico. Dice Acot a Repubblica:
«Vorrei vederci più chiaro perfino nella elettrificazione forzata del parco auto. Ma da dove verrà tutta l’energia elettrica necessaria per il settore trasporti o per i nuovi standard architettonici? Non cederò alla facile polemica dell’“a chi giova?”. Però, di certo, c’è chi vedrà aumentare i propri profitti da tutta questa rivoluzione».
Quante volte abbiamo ripetuto qui che senza un’adeguata “rivoluzione industriale” (praticamente impossibile entro il termine fissato da Bruxelles) la transizione ecologica nei trasporti è un suicidio economico per l’Europa – dove l’automotive non è esattamente un settore marginale – e un clamoroso, incomprensibile regalo alla Cina? Per di più con discutibili vantaggi ambientali in termini di emissioni, ma sicuri elevatissimi costi sociali in termini di posti di lavoro e diritto alla mobilità? Speriamo che queste obiezioni siano almeno prese sul serio, ora che a sollevarle è un «guru» e non un ecoscettico qualsiasi.