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La degenerazione delle carriere

Di Guido Piffer
01 Marzo 2025
Riflessioni di un veterano della giurisdizione sopra le ragioni ultime della crisi della magistratura. E sul perché nessuna riforma riuscirà a risolverla senza un giusto processo alla concezione che le toghe hanno di sé
Toghe
Foto Ansa

Il dibattito sulla giustizia, entrato nel vivo con l’inizio dell’esame in Parlamento della riforma Nordio, sta assumendo i toni di un conflitto tra la magistratura associata e una parte delle forze politiche, che rischia di risolversi in una prova di forza con lo scopo principale di sconfiggere l’“avversario”. 

Da un lato la magistratura associata (supportata da alcune forze politiche che in questi anni hanno tratto vantaggio dall’azione della magistratura e hanno esercitato su di essa un’egemonia culturale) si appella ai princìpi irrinunciabili dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, dimostrandosi però restia a fare una seria riflessione autocritica sulle ragioni che hanno portato al crollo della fiducia dell’opinione pubblica nei confronti della magistratura. 

Un crollo di fiducia che va di pari passo con l’accusa di parzialità, di politicizzazione e di degenerazioni ideologiche di una parte della magistratura, come pure con l’accusa, soprattutto a carico di alcuni pubblici ministeri, di avere esercitato l’azione penale per fini di protagonismo personale o di carriera, con l’inizio, non di rado, di processi che sono finiti nel nulla, dopo avere distrutto la vita delle persone coinvolte e avere causato ingenti danni economici.

Il tutto accompagnato spesso da uno spregiudicato utilizzo di rapporti privilegiati con settori importanti della stampa. Non manca poi l’accusa al Csm per le modalità di esercizio del potere disciplinare, perché non colpisce o colpisce in modo inadeguato gravi condotte incompatibili con elementari norme di correttezza e imparzialità che il magistrato deve rispettare.

Carlo Nordio
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (foto Ansa)

Un problema culturale

Sul fronte opposto, una parte della classe politica è mossa dall’esigenza, fondata, di evitare gli sconfinamenti della magistratura nel campo proprio della politica e quindi di riequilibrare i rapporti tra i poteri nello Stato. La reazione sembra talora motivata principalmente da un desiderio di rivalsa nei confronti della magistratura, che però tende a compromettere la capacità di analizzare lucidamente le proposte attualmente in discussione; un’analisi a freddo permetterebbe infatti di cogliere alcuni concreti rischi di un’eterogenesi dei fini.

Infatti, taluni aspetti della proposta di riforma (ad esempio la creazione di un Csm autonomo per i pubblici ministeri) rischiano di produrre effetti opposti a quelli perseguiti (nell’esempio, l’effetto di un aumento proprio di quei poteri del pubblico ministero che si vorrebbero invece ridimensionare). Non sarebbe certo la prima volta che questo accade: basti pensare alla riforma del codice di procedura penale del 1988, che favorì alcune ben note degenerazioni dell’azione dei pubblici ministeri verificatesi poi con Tangentopoli (una stagione giudiziaria che ebbe comunque pacificamente anche aspetti positivi). 

In questa situazione, in cui l’esame del merito dei problemi e delle proposte di soluzione sembra oscurato da questa prova di forza tra magistratura e politica, nella quale ognuno butta nello scontro le più diverse (e spesso non pertinenti) motivazioni, è opportuno ricordare che alcuni gravi problemi della giustizia dipendono oggi dalla crisi del diritto come strumento istituzionale di composizione dei conflitti, crisi sulla quale si innesta un problema culturale (quindi anche politico) riguardante il ruolo del giudice.

Perché il diritto è in crisi e perché diventa decisiva una riflessione sul ruolo del giudice? Per rispondere a queste domande bisogna constatare che l’esercizio della giurisdizione non si risolve quasi mai in una oggettiva e meccanica applicazione di una norma, e non lo è tanto più oggi in cui la legge statale ha perso la sua posizione di centralità nell’ambito delle fonti del diritto, per la sempre maggiore importanza assunta dalle fonti sovranazionali (ad esempio il diritto dell’Unione Europea e le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea), come pure per l’introduzione di nuove tecniche di interpretazione, basate ad esempio sull’applicazione di princìpi e non di norme, che richiede un bilanciamento tra opposti interessi in conflitto. 

Ne è derivato che i limiti entro i quali deve svolgersi l’attività del giudice sono diventati meno stringenti, con conseguente aumento dei casi in cui il giudice è chiamato a operare una scelta tra diverse interpretazioni, tutte formalmente giustificabili (questa complessa tematica non può essere qui approfondita).

Inoltre, esercitare la giurisdizione è reso difficile anche per l’acuirsi della disomogeneità della società, in cui si scontrano concezioni culturali spesso diametralmente opposte: anche questo ha infatti aumentato il rischio di un suo esercizio non imparziale perché ideologicamente orientato. Si pensi ad esempio alla perdita di univocità di significato di termini come matrimonio o famiglia, con i quali il giudice deve confrontarsi, operando delle scelte inevitabilmente divisive, vista la mancanza di un comune consenso rispetto ad esse.

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Ma quale “bocca della legge”

Ma si pensi anche al delicato equilibrio che deve essere ricercato nell’applicazione di molti istituti giuridici. Un esempio per tutti: applicare la scriminante della legittima difesa coinvolge opzioni culturali e politico-criminali rispetto alle quali la società è divisa. Nel delicato bilanciamento tra la liceità della reazione dell’aggredito e l’imposizione di rigorosi limiti a tale reazione, come trovare una posizione corretta? Le decisioni talora contrastanti dei giudici registrate negli anni, pur nell’applicazione della medesima norma, stanno a dimostrare quanto sia reale questo problema. Ma considerazioni analoghe valgono per molte altre materie che coinvolgono opzioni valoriali opposte presenti nella società (ad esempio la materia dell’immigrazione).

Ora, fermo restando che il fare giustizia ha sempre implicato, in termini più o meno ampi, scelte di valore (l’idea del giudice “bocca della legge” è smentita dalla realtà), la crisi della legge e l’affermarsi di nuove fonti del diritto e di nuovi metodi interpretativi, nell’ampliare gli spazi di discrezionalità del giudice, hanno anche ampliato l’importanza che nell’esercizio della giurisdizione assume l’equilibrio del giudice, la sua “prudenza” (già i romani avevano scoperto che il diritto è una “arte”: ars boni et aequi), nonché la sua capacità di agire secondo il principio di indipendenza.

L’indipendenza della magistratura (nata come indipendenza dal potere esecutivo) implica anche l’indipendenza rispetto ai propri convincimenti personali, alle proprie opzioni culturali e alle proprie opinioni politiche, perché il giudice che si fa condizionare da esse nega in radice l’idea stessa di terzietà e quindi di una vera giustizia che sia al di sopra delle parti. E non è inutile ricordare che nella storia della magistratura la scelta di campo del magistrato a favore di una particolare concezione ideologico-politica è stata talora apertamente teorizzata da alcune componenti dell’Associazione nazionale magistrati, che sono così entrate di fatto nel campo riservato alla politica.

La protesta dei magistrati dell’Anm di Catania davanti al Palazzo di Giustizia prima dell'inizio della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario
La protesta dei magistrati dell’Anm di Catania contro la riforma della giustizia (foto Ansa)

L’importanza di avere limiti

È questa una fondamentale questione culturale, che naturalmente coinvolge aspetti istituzionali e ordinamentali, posto che, nel nostro ordinamento, la legittimazione del potere del giudice è di natura tecnica e non politica: si accede alla magistratura in base a un concorso che verifica la preparazione giuridica dei candidati, non in base a una elezione di natura politica. È per questo che l’uso politico della giustizia mina alla radice i presupposti dello Stato democratico, perché in tal modo il giudice opera scelte politiche senza doverne rispondere, mentre al contrario il politico deve risponderne a chi lo ha eletto. Pur in una situazione così complessa e contraddittoria è però ancora possibile fare appello all’equilibrio e alla prudenza personale del giudice in una ricerca spesso difficile, ma non impossibile, di quel limite che gli permetta, nella stragrande maggioranza dei casi, di non arrogarsi un potere spettante ad altri ambiti decisionali. 

La riflessione sulla crisi della giustizia coinvolge dunque necessariamente (anche se non solo) il problema della concezione del ruolo del giudice e dei limiti che lo caratterizzano, cioè il problema di come il magistrato (giudice o pubblico ministero) concepisce l’esercizio della giurisdizione e la forma che esso deve assumere, e di come egli individua gli errori e gli abusi che deve evitare per non invadere un campo che non gli è proprio. In altre parole, è il problema del contenuto dell’autocoscienza del giudice, di come egli considera la funzione assegnatagli dall’ordinamento rispetto agli interessi e alle persone coinvolti nella sua attività.

E parlare di limiti significa anche riconoscere il valore di quelli posti dal necessario rispetto degli strumenti processuali. Così una corretta autocoscienza costituisce il primo antidoto alla possibile violazione da parte del giudice delle norme processuali, magari per il perseguimento di uno scopo che egli ritiene giusto (ad esempio, se gli elementi di prova acquisiti nei confronti di una persona sono insufficienti per sostenere l’accusa, il pubblico ministero o il giudice dovranno prenderne atto, anche se intimamente convinti dalle sua colpevolezza; e, ancora, nel processo civile il giudice, al quale l’ordinamento riconosce il delicato ruolo di “regista”, non potrà di regola ricercare da sé la prova, anche se intimamente convinto che essa è utile o indispensabile per una più completa conoscenza dei fatti).

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Don Giussani e Tangentopoli

A fronte di questa complessa situazione in cui versa la magistratura appare molto utile riprendere, seppur sinteticamente e senza pretesa di completezza, alcune riflessioni di don Luigi Giussani sulla giustizia. 

Per Giussani la categoria della giustizia, come dimensione esistenziale che connota l’esperienza di ogni uomo, presenta un’importanza fondamentale, innanzitutto perché l’esigenza di giustizia è una delle componenti essenziali del senso religioso, proprio di ogni uomo. «La verità è il destino per cui siamo stati fatti. Nel nostro cuore questo destino ha messo la firma, ha già detto che cosa è: amore, giustizia, verità, felicità» (Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli 2018, p. 63). 

Ma con grande realismo don Giussani rileva che, nell’anelito alla realizzazione della giustizia, «l’uomo si fa una immagine del suo bisogno e diventa ideologico», salvo poi essere costretto a scontrarsi con il proprio limite, dovendo constatare l’incapacità di realizzare l’immagine di giustizia che si è fatto e così si ripiega o in un ostinato mantenimento delle proprie posizioni o nello scoraggiamento (Certi di alcune grandi cose, Rizzoli 2007, p. 131 s.).

Questa profondità di sguardo sull’esperienza umana permette a don Giussani di formulare alcuni giudizi anche sulla giustizia intesa come concreta attività della magistratura. In particolare, da alcuni interventi che a partire dal 1993 don Giussani fece al tempo di Tangentopoli sono ricavabili preziosi spunti sulla concezione del ruolo del giudice e sui suoi limiti, che permettono di giudicare con maggiore acutezza la situazione attuale. Veniamo dunque agli interventi di don Giussani.

In quegli anni, come è noto, la magistratura aveva iniziato numerosissimi processi aventi ad oggetto i reati di corruzione e di finanziamento illecito dei partiti: sostenuta anche dalla maggioranza dell’opinione pubblica, aveva finito per eliminare gran parte della classe politica. I pubblici ministeri avevano così giocato il ruolo di grandi moralizzatori della vita pubblica. È in questo contesto che don Giussani, pur riconoscendo la necessità da parte della magistratura di contrastare il fenomeno corruttivo, formulò una serie di giudizi che si ponevano in radicale opposizione rispetto alla mentalità che stava diventando dominante, evidenziando errori e contraddizioni nell’operato della magistratura, la cui fondatezza avrebbe trovato decisiva conferma negli sviluppi degli anni successivi (su questi interventi si vedano A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli 2014, p. 888 s.; L. Giussani, “Parola tra noi – Un uomo nuovo”, in Litterae Communionis Tracce, 1999, n. 3, p. 5).

Inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli, 25 gennaio 2025 (foto Ansa)
Inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli, 25 gennaio 2025 (foto Ansa)

L’errore dei giustizialisti

Nella lettera dell’11 marzo 1993 alla Fraternità di Comunione e Liberazione don Giussani formulò un giudizio molto duro su Tangentopoli: «Di fronte al dissesto totale del nostro paese non possiamo non essere provocati ad un giudizio: un’azione che per punire colpevoli distrugge un popolo, come coscienza unitaria e come raggiunto benessere, ha almeno nella sua modalità di attuazione qualcosa di ingiusto». La censura di Giussani era rivolta soprattutto all’uso della custodia cautelare per ottenere le confessioni degli indagati e alla prassi di esporre gli indagati alla gogna mediatica: parlando di distruzione del popolo don Giussani intendeva riferirsi al fatto che un uso distorto del potere giudiziario non educa e non guida il popolo a salvaguardare e rispettare la dignità delle persone e quindi la loro identità, e perciò non costruisce una società che favorisce il cammino di ognuno al suo compimento nella verità (don Giussani usa a questo proposito e in questo senso il termine “destino”).

Don Giussani profeticamente e in solitudine colse poi nella realtà sociale la presenza di quei fattori che di lì a poco avrebbero portato al giustizialismo, inteso non solo come prassi di una parte della magistratura, ma anche come forma di una mentalità diffusa e come ideologia apertamente abbracciata da alcuni partiti quale strumento di lotta politica. 

È in questa prospettiva che egli evidenziò, tra l’altro, che una giustizia rispettosa della verità non può prescindere dalla consapevolezza della sua parzialità, non potendo, strutturalmente, tener conto di tutti i fattori coinvolti nell’azione del giudicare, tanto che proprio per questo, paradossalmente, quanto più si insiste sulla giustizia tanto più si rischia di fare ingiustizia (summum jus, summa inuria dicevano già i romani). Per questo il magistrato non può prescindere dalla consapevolezza che non può tutto e quindi deve agire umilmente, senza presunzione, conscio che, pur imbattendosi nei limiti dell’altro, non deve dimenticare che lui stesso è limitato; la giustizia è sì giudizio sull’errore e sul male, ma, senza rinunciare al suo ruolo di composizione dei conflitti e di difesa della società, non può essere disgiunta da uno sguardo che don Giussani chiama di misericordia, che permette di comprendere a fondo l’errore e il limite dell’altro ma che nel contempo costituisce il grande antidoto alla concezione dell’uomo come misura di tutte le cose. 

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Dalla morale al moralismo

Non a caso, per supportare il giudizio sulla situazione della giustizia, don Giussani valorizzò questa frase di Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Non mi piace la vostra giustizia fredda e negli occhi dei vostri giudici riluce sempre per me il boia con la sua spada gelida. Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi dunque l’amore che porta su di sé non solo tutte le pene ma anche tutte le colpe». 

Ma don Giussani intuì anche, ancora una volta profeticamente, il grave errore della riduzione della moralità a moralismo, inteso come «scelta unilaterale di valori allo scopo di sostenere il proprio tornaconto politico o di potere o allo scopo di tranquillizzare e proteggere il proprio quieto vivere». È la critica ad una concezione della giustizia ispirata a quel moralismo giudiziario sul quale si basa il giustizialismo, che confonde diritto e morale e finisce per diventare strumento di imposizione dei valori di volta in volta scelti dal potere per plasmare la mentalità dominante. Un giustizialismo che ha costituito un terreno fertile per l’affermarsi di derive ideologiche (quanti magistrati si ritengono investiti di una missione “salvifica” della società, che risulta antitetica al riconoscimento dei limiti anche ordinamentali del proprio operare!) e per il prevalere di finalità di protagonismo e di carrierismo personale, degenerazioni tutte che – come si è detto – sono in gran parte alla base del discredito che oggi ha investito l’intera istituzione giudiziaria.

Questa lucidità di giudizio sugli aspetti negativi del fenomeno di Tangentopoli non impedì a don Giussani di coglierne anche gli aspetti positivi. In una intervista rilasciata ad Alessandro Sallusti nell’agosto del 2000, richiesto di formulare un bilancio sintetico sulla stagione di Tangentopoli, don Giussani così si esprime: «Potrei semplificarlo con l’immagine di una crepa apertasi nel fondamento della nostra società, un imbroglio nel cui polverone non si può certo riconoscere il mattino di un giorno più benevolo. Anche se così ci è stato lasciato in eredità il richiamo ad una onestà “sociale” e per questo c’è un grazie anche alla fatica da loro [i magistrati] sostenuta» (A. Savorana, Vita di don Giussani, p. 1070).

Tiriamo dunque le fila del discorso. Una riflessione sull’odierna crisi della giustizia non può prescindere da una riflessione sulla concezione del ruolo del giudice e dei suoi limiti, problemi lucidamente posti già trenta anni fa da don Giussani. 

E la riforma Nordio? Rimandando ad altra occasione una sua più compiuta analisi, per quanto esposto fin qui possiamo considerare acquisito un criterio (anche se non certo l’unico) per valutarla: essa potrà essere considerata una riforma utile solo se capace di favorire e difendere una concezione del ruolo del giudice come quella sopra esposta, contrastando quelle degenerazioni che ne costituiscono la negazione.

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Un verdetto realista

Fin d’ora si può dire però che l’idoneità della riforma Nordio a raggiungere tale risultato non è affatto scontata, anche perché, come si è cercato di dimostrare, i problemi nei quali si dibatte oggi la magistratura hanno una natura innanzitutto culturale, e sulle scelte culturali le riforme ordinamentali possono incidere, ma difficilmente possono farlo in modo risolutivo. Infatti, un magistrato che faccia propria una concezione del suo ruolo connotata da motivazioni ideologiche o addirittura politiche, tenderà a riproporla anche in un mutato contesto ordinamentale, come del resto la storia della magistratura ampiamente dimostra. Fuor di metafora: si deve essere consapevoli che il giudice “militante”, ideologicamente orientato, tendenzialmente troverà il modo, salvando le forme, di attuare comunque la sua idea di esercizio della giurisdizione.

Una visione troppo pessimistica? No, una visione realistica, per la consapevolezza della complessità dei problemi e della loro reale natura, che sollecita la politica a varare strumenti istituzionali adeguati e ben ponderati, espressione cioè di una “buona politica”, in grado di proporre soluzioni idonee a favorire il più possibile l’esercizio corretto dell’attività giudiziaria, arginandone le degenerazioni, ma salvaguardando nel contempo gli irrinunciabili princìpi sui quali si fonda l’organizzazione della magistratura in uno Stato di diritto. Tra essi un posto non secondario assume l’indipendenza del magistrato, che esige però un esercizio responsabile e controllato (e quindi rispettoso dei propri limiti) dell’enorme potere che l’ordinamento gli riconosce.

* * *

Guido Piffer, autore di questo articolo, è stato magistrato presso gli uffici giudiziari di Milano, dove ha ricoperto le funzioni di giudice e presidente di sezione del Tribunale penale, della Corte d’assise e d’assise di appello, della Corte di appello penale. Dal 1981 insegna Diritto penale presso corsi post-universitari dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato relatore nei corsi organizzati dapprima dal Consiglio superiore della magistratura e poi dalla Scuola superiore della magistratura.

Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di marzo 2025 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

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