Trent’anni fa iniziò l’annus horribilis della nostra storia
Il 17 febbraio 1992 viene arrestato in flagranza il socialista Mario Chiesa. L’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano è colto mentre si apprestava a ricevere una tangente. Ha inizio la stagione di Mani Pulite. Per dare un’idea dello spartiacque rappresentato da quell’evento basta confrontare le richieste di autorizzazioni a procedere per il reato di finanziamento illecito inviate dalla magistratura alla Camera dei deputati durante la X legislatura, dal 1987 al 1992, e quelle durante l’XI, dal 1992 al 1993: sono 0 contro 9.074.
Com’è possibile che la corruzione fosse esplosa tutta all’improvviso e concentrata solo in quell’ultimo scorcio di prima Repubblica? Non si è mai riflettuto abbastanza su questo. Eppure a distanza di trent’anni i dati dovrebbero indurre ad una riflessione, imprescindibile ovviamente dall’ammissione che corruzione e malversazioni effettivamente esistessero.
L’amnistia
I fatti su cui chi volesse ricostruire la storia di quegli anni deve riflettere sono due.
Il primo: l’amnistia per il reato di finanziamento illecito ai partiti, proposta con disegno di legge approvato dal governo Andreotti il 27 ottobre 1989, votata dal Parlamento e firmata con decreto del presidente della Repubblica (all’epoca era Francesco Cossiga) il 12 aprile 1990.
In mezzo c’è la caduta del muro di Berlino, la fine della guerra fredda, ma soprattutto la riforma del processo penale. Quest’ultima dava alle procure competenze più ampie e – questa la motivazione ufficiale dei rappresentanti politici – l’amnistia voleva alleggerire il carico di lavoro arretrato dei pretori. In realtà il mondo stava cambiando e si voleva evitare che sotto le macerie di muri che crollavano e di archivi di regimi dell’est che si aprivano rimanessero intrappolate troppe vittime.
Del resto era un tentativo di pacificazione al pari di quello fatto da Togliatti con l’amnistia del 1946 per chiudere la guerra civile tra fascisti e antifascisti. Un tentativo di pacificazione che sanando tutti gli illeciti dal 1974, anno dell’approvazione della legge sul finanziamento ai partiti, di fatto ne ammetteva la violazione.
La preferenza unica
Secondo fatto su cui riflettere: un anno prima dello scoppio di Tangentopoli si celebra il referendum contro le preferenze multiple che introduce per le successive elezioni dell’aprile 1992 la preferenza unica.
Spiega un testimone diretto come Carlo Giovanardi: «La preferenza unica rivoluzionò tutto il sistema, costringendo ogni candidato a misurarsi con gli altri in circoscrizioni sterminate (dai 231.000 elettori di Trieste ai 4.181.000 di Roma) con la consapevolezza che l’elettore, per votare validamente la preferenza, doveva scrivere per esteso il cognome del candidato». Per una campagna elettorale siffatta si presenta immediatamente «un fabbisogno aggiuntivo di denaro fresco che i candidati, per concorrere in modo competitivo, furono costretti a reperire nei pochi mesi della campagna elettorale».
E riguardando le elezioni del 1992 l’intero territorio nazionale «tutte le Procure d’Italia avrebbero dovuto indagare sulle entrate e sulle spese elettorali di tutti i candidati eletti».
Eppure così non è stato, tanto che più della metà degli indagati per finanziamento illecito in quegli anni si concentra nel solo territorio della Corte d’Appello di Milano (390 su 706), dove tradizionalmente erano più forti socialisti e democristiani.
Lotta “a campione”
Dunque il combinato disposto di amnistia, riforma del processo penale e conseguenze dell’abolizione della preferenza multipla danno il colpo di spugna, confinando il finanziamento illecito alla politica ad un solo periodo storico, ad un solo territorio e ad alcuni partiti.
Insomma, una lotta alla corruzione “a campione” che, come ha ricostruito Luigi Ferrarella sul Corriere della sera, ha coinvolto 2.565 persone, di cui 1.002 tra assolti e prosciolti. Una lotta alla corruzione “a campione” che ha indubbiamente segnato più di tutti l’eliminazione dalla scena politica di un leader in particolare: Bettino Craxi.
Ricordano gli storici Simona Colarizi e Marco Gervasoni la consapevolezza del segretario del Psi che aveva attraversato tutto il decennio precedente: quel partito «dispone solo di un terzo dei voti democristiani» e proprio per questo «deve appropriarsi della maggior quantità possibile di mezzi» «per l’organizzazione della politica e per la conquista dell’opinione, tanto più nella società complessa, ricca e mediatizzata degli anni Ottanta nella quale i costi della politica sono in continuo aumento».
L’obiettivo Craxi
Inoltre Craxi sa che, caduto il muro di Berlino e venuto a mancare il propellente anticomunista che ha garantito per quasi cinquant’anni il governo alla Dc, lui può essere la guida di una sinistra rinnovata, atlantista e in alternativa al partito dei cattolici. Il voto contrario alla missione in l’Iraq alla Camera il 17 gennaio del 1991 e i toni ancora marcatamente antiamericani utilizzati in quella occasione dal segretario del Pci-Pds, Achille Occhetto, deludono Craxi. Nonostante ciò egli acconsente all’ingresso degli ex comunisti nell’Internazionale socialista e nel gruppo dei socialisti europei.
Eppure i vertici di Botteghe Oscure continuano con Massimo D’Alema a ritenere Craxi «il principale ostacolo dell’unità a sinistra». Troppo compromesso con il pentapartito che ha governato l’Italia per tutti gli anni Ottanta e non curante che la «questione morale», agitata da Berlinguer dieci anni prima proprio per differenziare il Pci dal Psi, si sarebbe trasformata ben presto nell’arma distruttiva della prima Repubblica.
Inizia allora «la mobilitazione di un altro potere per così dire “neutrale”, il mondo della comunicazione e dell’informazione», in particolare contro i socialisti, ricordano ancora Colarizi e Gervasoni.
Il ruolo dei talk
L’arresto di Mario Chiesa, inizialmente liquidato da Craxi come “mariuolo”, dà inizio a valanghe di accuse riversate in televisione. Trasmissioni Rai, come Milano Italia di Gad Lerner, Samarcanda di Michele Santoro, o Fininvest, come Mezzogiorno italiano di Gianfranco Funari, anticipano i processi delle aule giudiziarie e mettono alla sbarra la linea politica del segretario socialista, sostenendo che l’autoriforma del sistema politico non c’è stata e la sta facendo la magistratura.
Si staglia così all’orizzonte un circuito mediatico-giudiziario quale sorta di nuovo potere costituente che cede di buon grado alla tentazione di sostituirsi alla classe politica, che tuttavia rimaneva ancora l’unica legittimata dal voto popolare.
Colpire i socialisti
Infatti il pentapartito alle elezioni del 6 aprile del 1992 supera il 53% dei consensi. Il segretario del Partito socialista, in un generale accordo con la Dc, avrebbe dovuto essere nominato capo del governo proprio dal nuovo presidente della Repubblica, incarico che sempre secondo quegli accordi sarebbe andato o ad Arnaldo Forlani o a Giulio Andreotti.
La strage di Capaci del 23 maggio nel mezzo dell’impasse parlamentare sul voto per il Quirinale porta a convergere su un altro democristiano, quell’Oscar Luigi Scalfaro che nominerà presidente del Consiglio Giuliano Amato. Questo perché i primi mesi di indagini indeboliscono decisamente l’immagine di Craxi. Anche se il primo avviso di garanzia al leader socialista giungerà dalla procura di Milano il 15 dicembre, già il primo maggio del 1992 sono iscritti nel registro degli indagati l’ex sindaco del capoluogo lombardo Carlo Tognoli e il suo successore, Paolo Pillitteri, nonché cognato di Craxi.
Craxi da Hammamet
Se è pur vero che con la conferma per quest’ultimo del mandato di cattura da parte della Cassazione si può parlare da un punto di vista tecnico di “latitanza” (ufficializzata il 21 luglio 1995 dalla settima sezione del Tribunale di Milano), è pur vero che i motivi che lo spingono ad allontanarsi dall’Italia nel 1994 sono da ricercarsi in un clima tale da fargli temere per la sua incolumità personale, come dichiarerà in una delle numerose interviste che (elemento assai curioso per un soggetto che si sarebbe dato alla macchia) rilascia nel suo periodo ad Hammamet: «Mi sono trovato in una situazione di tale persecuzione, in mezzo a tale campagna di odio… autentiche intimidazioni… Minacce di tutti i tipi. Non voglio dire di più, di fronte ad autorità che hanno fatto dell’ironia su di me e sulle condizioni di sicurezza in cui vivo… Quando ci sono campagne che suscitano violenza, che mostrano odio nei sentimenti e nel linguaggio, si creano solo condizioni per nuove esplosioni di violenza… Ho subìto già una grande violenza, non ne vorrei subire altre».
L’Hotel Raphael
Ci sono sicuramente almeno tre episodi che documentano il clima di quegli anni denunciato da Craxi.
Il più noto è il linciaggio da parte della folla inferocita proveniente dall’adiacente piazza Navona dove, nel pomeriggio del 30 aprile 1993, si era concluso da poco un comizio di Achille Occhetto, segretario post- comunista del Pds: il segretario socialista lascia l’alloggio dell’Hotel Raphael a Roma, dopo che la giunta della Camera per le autorizzazioni aveva respinto quattro delle sei richieste di procedere per corruzione contro il leader, e viene colpito dal lancio di monetine al grido di “Ladro! Ladro!”.
Qualche mese più tardi, il 17 dicembre 1993, mentre Craxi si reca in tribunale per essere interrogato come testimone al processo Cusani, un poliziotto della sua scorta si rompe il menisco per difenderlo da un’aggressione davanti al Palazzo di giustizia. Nel frattempo il 3 maggio il leader socialista aveva denunciato alle autorità competenti continui furti nel proprio ufficio, nelle case sue e dei suoi figli e nello studio del suo legale.
Un clima, insomma, che unito alle dicerie che iniziavano a diffondersi (come il presunto furto da parte della famiglia Craxi della fontana di piazza Castello, a Milano, oggetto invece di un restauro e restituita poi alla città dall’amministrazione Albertini) costringono il segretario Psi ad allontanarsi dal Paese. E pur nella sua permanenza in Tunisia, cosa nota a tutti se non altro per le continue dichiarazioni e interviste a mezzo stampa e tv rilasciate dal politico, Craxi si è sempre dichiarato pronto a collaborare con le autorità giudiziarie, come quando fece sapere al pm di Venezia, Carlo Nordio, la disponibilità ad essere interrogato ad Hammamet – anche per il deteriorarsi delle sue condizioni di salute che nel 2000 lo porteranno a morire.
La sentenza di Strasburgo
Tuttavia la vicenda giudiziaria di Craxi non può limitarsi alla più o meno vera “latitanza”. Va menzionata altresì l’acclarata violazione dei diritti della difesa come sancito dalla condanna subita dall’Italia in sede di Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
La sentenza di Strasburgo del 5 dicembre 2002 infatti ha condannato il nostro Paese per la pena di 5 anni e 6 mesi comminata al leader socialista a conclusione del processo Eni-Sai, perché ha ritenuto violato l’articolo 6 della convenzione europea sull’equo processo. Craxi, si legge, fu condannato «esclusivamente sulla base delle dichiarazioni pronunciate prima del processo da coimputati che si sono astenuti dal testimoniare, e da una persona poi morta (Gabriele Cagliari)». I difensori di Craxi non avevano quindi potuto «contestare le dichiarazioni che hanno costituito la base legale della condanna».
La madre di tutte le tangenti
Accanto a simile certificazione della violazione dei diritti dell’imputato, occorre anche citare per esteso i motivi di un’altra condanna, quella per l’affaire Enimont (la “madre di tutte le tangenti”), poiché per bocca di una corte di giustizia italiana si offre il giusto sentiment creato e promosso in quella stagione della nostra recente storia: «Si può anche dar atto a Craxi che in questo processo non sia risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza – che forse potrebbe avere un qualche valore da un punto di vista per così dire estetico – nulla significa ai fini dell’accertamento della responsabilità penale».
Magistratura anomala
Vicenzo Caianiello, presidente emerito della Corte costituzionale, commenterà così le vicende giudiziarie di quel periodo: «I magistrati che avrebbero dovuto perseguire “fatti” penalmente rilevanti e descritti in fattispecie “tipiche”, perché soltanto questa è la loro funzione, si misero a inseguire “fenomeni” (sostenendo che loro compito era esercitare il “controllo di legalità” su tutti i comportamenti umani, come nei tribunali censori delle costituzioni giacobine) per cui, per compiere la missione salvifica, non riuscirono a sottrarsi alla suggestione di adoperare per un fine diverso strumenti messi a loro disposizione dalla legge soltanto per perseguire notitiae criminis».
Guido Crainz, un storico non certo incline a considerare le ragioni del leader socialista, nel suo Autobiografia di una Repubblica cita la relazione annuale del procuratore della Cassazione, Vittorio Sgroi, che alla fine del 1993 ammette quanto la repressione della corruzione di natura politica stava affidando ai pubblici ministeri «un complesso di situazioni che influiscono sugli equilibri del quadro politico-istituzionale. E li ha resi titolari di un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze […] carica di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale».
La nota di De Felice
Il tempo per la Grande riforma di cui la politica si è riempita la bocca nel corso di tutti gli anni Ottanta è scaduto. Il crollo del muro di Berlino ha svolto il ruolo di acceleratore e non ha favorito l’alternanza democratica fra governo e opposizione, impedita fino ad allora per le logiche di Yalta.
Annoterà Renzo De Felice in Rosso e Nero che a ben vedere nella storia dell’Italia unita non c’è mai stata quell’alternanza, ma «sempre crisi di regime». Stava riaccadendo nel 1992. L’annus horribilis della nostra storia.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!