L’avevano chiamata “la Primavera di Damasco”. Ma, almeno per ora e a distanza di un anno e mezzo dall’arrivo al potere di Bashar al-Assad, i cambiamenti promessi in campo politico ed economico ancora non si vedono nell’antica capitale degli Omayyadi. «È presto», ritengono coloro che vedono il giovane presidente preoccupato di non allontanarsi troppo dal percorso tracciato dal padre, più avvezzo per la trentennale esperienza alla guida del Paese a giostrarsi tra gli intrighi di palazzo. Molti, infatti, additano la “vecchia guardia” del partito Baath al potere come responsabile della mancata applicazione del programma annunciato da Bashar nel suo discorso di investitura in cui il nuovo presidente siriano aveva lasciato intendere che la strada della liberalizzazione dell’economia, della libertà della stampa e del multipartitismo era ormai tracciata.
Una vera delusione per chi poneva tutte le sue speranze in un uomo che aveva compiuto i primi passi in politica guidando una campagna anti-corruzione all’interno del partito e degli apparati statali. Si pretendeva troppo, forse, da un trentasettenne catapultato all’improvviso nella politica. Bashar stava studiando oftalmologia in Gran Bretagna quando fu chiamato dal padre Hafez, subito dopo la morte in un misterioso incidente stradale del primogenito Bassel, che si stava imponendo come suo erede naturale. L’ascesa accelerata del secondogenito culmina nel giugno 2000 quando Bashar è chiamato a succedere al padre in perfetto stile monarchico attraverso l’emendamento dell’articolo della Costituzione che fissava a quarant’anni l’età minima del candidato alla carica suprema dello Stato.
In galera perfino i deputati
Per ora, per significativi che siano, i passi positivi sono ancora timidi e si contano sulle dita di una mano. Tra questi, la liberazione di circa 700 detenuti politici, la chiusura del famigerato carcere di Mazze, vicino a Damasco, e della “sezione politica” di quello di Palmira. A queste misure si contrappongono, però, anche passi indietro come l’interdizione dei forum politici nati sull’onda dell’indulgenza dimostrata da Assad junior all’inizio del suo mandato nei confronti della società civile. La rigida applicazione della legge che vieta ogni assemblea che non sia autorizzata ha raggiunto l’apice con l’ondata di arresti che ha toccato, l’estate scorsa, figure emblematiche, tra cui anche due deputati che avevano sollecitato l’abolizione dello Stato di emergenza, in vigore dal 1963. I riformisti siriani sono stati accusati di tentare «di cambiare la Costituzione con mezzi illegali», di «fomentare divisioni confessionali» (è il caso del deputato Riad Seif), di «organizzare incontri sovversivi»‚ e di «aggressione tesa a impedire alle autorità di adempiere ai propri doveri» (è il caso del deputato Ma’mun al-Homsi).
Poco rosea anche la situazione della stampa. La nuova legge, promulgata a settembre con un decreto “legislativo” presidenziale, si proponeva infatti di rinnovare un settore dominato dal monopolio statale (tre quotidiani, tutti governativi) in un Paese che conta 18 milioni di abitanti. Ma le disposizioni della legge hanno presto illustrato la volontà di fare del nuovo senza rinunciare al passato. Da un lato, essa permette ai cittadini e ai partiti legali di pubblicare propri giornali e riviste accettando dopo mezzo secolo il principio di una stampa libera e indipendente. Dall’altra, conferisce al primo ministro il diritto di rifiutare la debita autorizzazione qualora ritenga che una nuova testata si contrapponga a un non meglio specificato “interesse pubblico”. Non solo: la legge persegue i giornali per ogni notizia ritenuta falsa o nociva all’ordine, all’unità o alla sicurezza nazionale; vieta di attentare al morale dell’esercito (cioè di criticarlo) e di parlare dei suoi effettivi o del suo arsenale; idem per ogni informazione che possa arrecare un danno alla stabilità economica, ai buoni costumi, invitare alla disobbedienza civile o al cambiamento della Costituzione con “mezzi incostituzionali”. I tabù infranti si limitano all’autorizzazione di un giornale satirico che si guarda comunque bene dal superare le linee rosse rappresentate dalle “realizzazioni” dell’era di Assad padre. La televisione siriana ha mandato recentemente in onda una satira in cui sono state per la prima volta descritte le noie con i Mukhabarat (i servizi segreti) avute dal gestore di un bar per aver spento il televisore nel momento in cui un responsabile politico si apprestava a pronunciare un discorso.
Un altro banco di prova è il Libano, ridotto da oltre un decennio a un “protettorato” siriano. L’affidamento del “dossier” libanese al delfino Bashar aveva suscitato nei libanesi la speranza di vedere il nuovo presidente adottare un approccio diverso, in particolare in merito alla “presenza” di 30 mila soldati siriani in Libano. Attese anche queste tradite, nonostante la fine dell’occupazione israeliana del Sud.
La vecchia guardia Baath resiste
È difficile in questo contesto riuscire a intravedere un cambiamento sostanziale in Siria fintanto che Assad continuerà a cercare di non urtare la sensibilità dei militari e dei compagni di partito che temono un ridimensionamento del loro ruolo. Così, se è vero che 18 dei 33 ministri dell’ultimo rimpasto avvenuto a dicembre rappresentano dei volti nuovi, molti dei quali tecnocrati con un’esperienza di lavoro all’estero, è altrettanto vero che il Baath continua a monopolizzare i portafogli chiave. In particolare, hanno conservato i propri “mestieri” Faruq al-Sharaa, ministro degli Esteri dal 1984 e Mustafa Tlass, ministro della Difesa da ben 31 anni.
Questi e altri pascià non risparmiano alcuno sforzo per continuare a relegare in secondo piano l’introduzione di riforme politiche e vedono nel programma di Bashar un incauto cammino in direzione della perdita dei privilegi conquistati negli ultimi tre decenni. Ricorrono perciò alla solita retorica: la situazione esplosiva venutasi a creare con l’arrivo al potere in Israele di Ariel Sharon deve avere la priorità. Per loro, gli appelli alla democrazia e al rispetto dei diritti umani portano solo ad indebolire la posizione della Siria nel suo confronto con lo Stato ebraico. Pretesti infondati, replicano i riformisti. «Il conflitto con Israele, affermano, riguarda anche noi e il nostro nemico trae vantaggio dalla nostra debolezza che ha proprio origine nell’assenza di democrazia e di pluralismo politico».