«Posso sopportare il dolore, non di essere trattata come un sacco di carne»

Di Caterina Giojelli
10 Agosto 2024
Il viaggio di Amanda Achtman tra malati e anziani a cui viene proposta come cura l'eutanasia. «Non c'è sofferenza più grande del non essere desiderati» in Canada, dove la "cultura della morte" ha lasciato il posto a una "morte senza cultura"
Christine Nagel (foto dal substack dyingtomeetyou di Amanda Achtman)
Christine Nagel (foto dal substack dyingtomeetyou di Amanda Achtman)

Il 1 agosto di un anno fa Amanda Achtman decise che avrebbe dedicato ogni singolo giorno a raggiungere le persone prima che lo facesse l’eutanasia in Canada. Seguì un anno di incontri, eventi, filmati che grazie ai social network fecero in fretta di Achtman il punto di riferimento per pazienti come Roger Foley (ricordate? Il London Health Science Centre’s Victoria Hospital gli aveva presentato una scelta: pagare 1.500 dollari al giorno per cure che non poteva permettersi oppure «ricorrere gratuitamente al suicidio assistito come previsto dal piano per la comunità», Tempi ne aveva parlato qui), ma anche per ricercatori, giornalisti che hanno spesso attinto al suo progetto Dying To Meet You.

Un controcanto agli storytelling sull’eutanasia “compassionevole”, fondato sul tentativo di non censurare, bensì “umanizzare” ogni discorso sulla sofferenza, la morte, dare un significato al tempo della malattia.

Il controcanto di Achtman agli storytelling sull’eutanasia

La storia di Achtman, che oggi lavora con la Canadian Physicians for Life, è quella di una giovane cresciuta ad Alberta in una famiglia ebreo-cattolica. Un carattere forgiato nell’accompagnare nella malattia e fino alla fine il nonno, ebreo polacco sopravvissuto all’Olocausto; un master sugli studi filosofici di Giovanni Paolo II conseguito a Lublino, in Polonia; un periodo da consulente per un membro del parlamento canadese che lavorava per prevenire l’estensione dell’eutanasia ai disabili; gli studi completati alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Poi Achtman aveva deciso di tornare in Canada, con l’idea di battagliare contro l’avanzata dell’eutanasia, ormai normalizzata (di più, “romanticizzata”) da politici, vip, registi, attivisti fino ad assumere i contorni non più del diritto bensì del dovere di morire.

Per farlo, doveva mischiarsi tra le persone, i fragili, i malati, gli anziani, sui quali non si accendevano telecamere o microfoni. E scovare lì, e far raccontare loro, il significato della loro vita, della malattia, e di come vivessero l’offerta non richiesta del suicidio assistito da parte di medici e infermieri.

«Posso sopravvivere al dolore. Non ad essere trattata come un sacco di carne»

Offrire il protocollo del Maid (Medical Assistance in Dying) tra le opzioni di “cura” è infatti diventato una prassi del servizio sanitario canadese: «Il dolore fa schifo. Siamo tutti d’accordo. È terribile. Soffro 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Non smette mai. Posso sopravvivere a questo. Non posso sopravvivere se sono trattata come un sacco di carne», ha recentemente sbottato a Ctv News Tracy Polewczuk, affetta da spina bifida, a cui è stato consigliato per due volte e in due ospedali diversi di beneficiare del Maid. La donna chiedeva aiuto e più cure perché stava peggiorando, «e invece di ricevere un aiuto per vivere ho ricevuto una spinta verso il suicidio assistito (…) Ma io voglio sopravvivere. Voglio l’opposto di ciò che stanno cercando di farmi fare».

In Canada l’eutanasia, legale dal 2016, uccide oggi circa 16 mila persone all’anno. In Canada chi non può permettersi le cure poiché il sistema sanitario non può (o non vuole) coprire le spese, chiede l’eutanasia. In Canada lo Stato ricatta gli hospice (erogare l’eutanasia o chiudere) e gli attivisti portano in tribunale gli ospedali cattolici che non fanno l’iniezione letale. Il Canada vanta il mattatoio mondiale dell’eutanasia (nessun paese uccide come la provincia del Quebec) e dopo averla promossa, elargita, resa desiderabile ma soprattutto inevitabile a malati terminali, disabili, senzatetto, poveri, depressi e dementi, tocca oggi ai tossicodipendenti beneficiare della morte assistita.

Christine, classe 1935 e un tatuaggio: “Don’t Euthanize Me”

«Non esiste dolore più grande del non essere desiderati». A fine luglio The Free Press ha ripreso una intervista rilasciata da Achtman ad Andrew Kooman, autore di una docuserie su come il Maid si sia fatto strada fino a diventare una delle principali cause di morte in Canada. «L’altro giorno ho notato su X che un’altra persona ha deciso di farsi mettere dei braccialetti prima di andare in sala operatoria – ha raccontato la donna -. I braccialetti dicono “Full Code” e “NO MAID. NO DNR”. Significa che le persone che stanno già sperimentando la vulnerabilità di essere pazienti ora si sentono ulteriormente vulnerabili a causa della disponibilità e della prevalenza dell’eutanasia in Canada».

Achtmann aveva intervistato a questo proposito Christine Nagel, classe 1935, arrivata da Londra in Canada nel 1957. E che da qualche anno gira un tatuaggio sulla spalla: “Don’t Euthanize Me”. Una donna con una storia bella e drammatica, che solo dopo avere ingoiato un sacco di pillole per farla finita aveva capito cosa stava facendo ed era stata salvata dai medici. Sarebbe accaduto anche oggi? «Durante la guerra stampavano queste carte da infilare nel portafoglio. Dicevano “Sono cattolico. In caso di incidente chiamare un sacerdote”. Quando sono arrivata in Canada ho capito che un portafoglio poteva andare perso e così ho deciso di farmi un tatuaggio. Quando andavo in ospedale i medici mi facevano il gesto del pollice in su, perché nessuno voleva aiutare persone vive a suicidarsi», racconta Nagel.

«Esistere vuol dire essere continuamente voluto»

Achtman spiega che la difficoltà più grande per tutti i candesi incontrati finora sta nel cercare di giustificarsi, spiegare a parole a chi offre il Maid perché sono contrarie all’eutanasia. A tanto è arrivata la “normalizzazione” della morte assistita. «”Perché non Maid?”. Luigi Giussani lo ha spiegato quando ha detto: “Esistere vuol dire essere continuamente voluto”. Il fatto di essere vivi significa avere una ragione per essere qui. Coloro che hanno affrontato la precarietà della vita sono spesso particolarmente capaci di coglierne la preziosità». Non sono “volute” le persone a cui viene offerto il Maid, né è il loro bene, bensì una strana idea di benessere, ciò che resta a cuore di uno Stato che propina loro storie di fine vita (vedi lo spot All is beauty) dove “bellezza” è mettere fine alla sofferenza. «Nessuno vuole soffrire, e questo è normale e ragionevole. Ma non esiste una bella storia senza sofferenza, perché la sofferenza e il modo in cui le rispondiamo, ha a che fare col significato della vita. Una bella storia è una storia in cui, per prendere in prestito una frase di Lorenzo Albacete, “il dramma della sofferenza [si trasforma] in un dramma d’amore”».

Da qui il “viaggio” di un anno di Amanda Achtman in giro per il Canada a caccia di storie umanissime di amore, cura e significato della sofferenza, per dare a tutti la possibilità di far sentire la propria voce e promuovere un vero dialogo culturale in un paese in cui la “cultura della morte” ha lasciato il posto a una “morte senza cultura”. Appena uscita, Facebook ha rimosso l’intervista di Achtman a Kooman. Ma non può estirpare dalla rete i suoi video, storie come quelle di Foley o Nagel – con la loro “impresentabile” voglia di vivere più di prima, anche nel dolore e andando incontro alla fine -, che continuano a girare e interrogare una comunità di persone fragili e stufe marce di essere trattate come “sacchi di carne”.

«Hai mai desiderato l’eutanasia?». «E voi giornalisti perché me lo chiedete?»

«Mi ricordo molto bene che una troupe televisiva venne a realizzare un servizio in ospedale dopo l’incidente», raccontava Philippe Pozzo di Borgo a Leone Grotti (a proposito di storie belle che devono essere raccontante e diffuse, questa intervista uscita per Tempi sulla necessaria “pedagogia della fragilità” vale più di ogni discorso). «Uscivo da diversi mesi di coma e loro mi fecero la stessa domanda (“Ha mai desiderato di morire dopo l’incidente?”, ndr). Mi misi a singhiozzare, dicendo: “Perché mi fate questa domanda? Mi disturba enormemente!”. Due o tre settimane prima avevo tentato di suicidarmi. Avevo preso coscienza che sarei stato un peso troppo gravoso da portare per mia moglie, Beatrice, che oltretutto era malata. La copertina del numero di aprile 2022 di Tempi, dedicata a un’intervista a Philippe Pozzo di Borgo sull’eutanasiaAvevo cercato di soffocarmi avvolgendomi il tubo della macchina dell’ossigeno alla gola. Svenni. Quando ripresi coscienza, c’era una infermiera molto bella che mi domandò se andava tutto bene. Non dissi niente (dal momento che un macchinario m’impediva di parlare): mi limitai a sbattere le palpebre. Mi è ritornata alla mente una domanda di recente: dopo la morte di Beatrice, malgrado la mia forte depressione, perché non pensai di mettere fine ai miei giorni?».

 

Qual è la risposta? «Perché non era l’handicap a sembrarmi insopportabile, quanto il peso che avrei potuto costituire per lei. Per altre vittime di incidenti, è diverso: i medici mi hanno spiegato che nel 90 per cento dei casi, dopo un incidente, i pazienti tetraplegici vogliono suicidarsi. È una tappa normale del percorso. Io ragionavo sul “peso” che sarei stato. In realtà, ho sempre trovato la vita un’avventura appassionante e forse ancor di più da quando sono un naso rivolto al soffitto!».

L’Italia rifletta sulla parabola del Canada

Lo abbiamo già scritto e continuiamo a ripeterlo: l’Italia, e soprattutto i cattolici, dovrebbero fare attenzione alla parabola del Canada. Come in Italia, anche nel paese guidato da Justin Trudeau l’eutanasia è stata sdoganata dalla Corte Suprema, che nel 2015 definì incostituzionale la proibizione della buona morte. Obbligato ad approvare una legge, il Parlamento nel 2016 ha adottato un testo pieno di “paletti” e garanzie, caduti uno ad uno nel corso degli anni. Oggi qualunque cittadino – gratuitamente, con poco sforzo e quasi a prescindere dalle condizioni di salute – può ottenere l’iniezione letale, mentre pochissimi hanno accesso alle costose cure di cui avrebbero bisogno per continuare a vivere. Non c’è spazio per l’obiezione di coscienza e qualunque tentativo di dialogo culturale sul fine vita, come racconta la storia di Achtman, si chiama battaglia.

 

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