Marzo 2014, Melilla, con Ceuta territorio spagnolo al nord del Marocco: circondata di doppia barriera frontaliera per impedire l’accesso a immigrati non regolari e presidiata da militari che sparano contro chi si avvicina; in aggiunta alle forze già dislocate, Madrid ha inviato cento agenti antisommossa e cinquanta unità della Guardia civile.
Marzo 2014, Berlino: pur negando di mettere in discussione la libera circolazione delle persone all’interno dell’Ue, nel governo tedesco si discute di correttivi, per esempio nei confronti dei cittadini bulgari; si studia come rimandarli indietro se, dopo tre mesi dall’ingresso, non hanno iniziato a lavorare, e come non farli rientrare se li si è allontanati per reati non gravissimi.
Marzo 2014, mare a sud della Sicilia: con la buona stagione sono ripresi gli sbarchi, circa 6 mila nei primi tre mesi dell’anno e quasi 11 mila dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum: le navi della Marina militare vanno a raccogliere i migranti nelle acque internazionali e li conducono nei porti siciliani.
È la stessa Europa, ma il tratto verso chi prova a entrare nei suoi confini è radicalmente diverso, Stato per Stato. Con l’aggravante che, a scadenze ricorrenti, qualcuno dall’Ue fa pure la lezioncina all’Italia, mandando gli ispettori a Lampedusa, con conseguente chiusura dei centri di prima accoglienza, e non a Melilla. Quanto intende aspettare il governo italiano per porre in Europa la questione di una politica migratoria realmente comune, di una divisione degli oneri per i costi che ciascuno Stato sopporta, di una ripartizione dell’accoglienza proporzionata alla popolazione di ciascuna nazione, di una lingua unica da parlare con i paesi di provenienza e di transito? Perché non porre tutto ciò come obiettivo prioritario nel mitico semestre di presidenza Ue?