
C’è Pupi Avati al Meeting, e Avati è il drago, non lo catturi mai, lo inviti a parlare di giovani e talento, e poi è il drago Avati ad agguantarti: travolge con la storia di Dante l’innamorato, la storia del suo matrimonio redento, del suo cinema, dei suoi imprevisti in vita e set, lo inviti a parlare di cose e lui risponde sempre con «io», un io impetuoso, «e poi quando mancano cinque minuti ditemelo che voglio dirvi una cosa. Io devo proprio chiudere con una cosa che ho capito». Un Avati fulminato dalla Provvidenza che si nasconde nel dettaglio, quello di Beatrice col suo «Vi saluto» a Dante in chiesa, il bacio della bellissima ragazza ricevuto da Avati cinque minuti prima che il 18 febbraio diventasse il 19, e nove mesi dopo divenne sua moglie, la «tessera del mosaico che mi mancava» – e quanto dolore e perdono ci è voluto perché quella intuizione diventasse «l’inizio del mio matrimonio».
Di questo e molto altro Avati aveva già raccontato ai lettori di Tempi, ma c’è il Meeting e il drago Avati, anche se è alla nona settimana di riprese del suo lavoro più ambizioso, il suo film dedicato alla Vita di Dante, non è voluto mancare a Rimini, che lo ha accolto come sempre, tra risate e lacrime, parlando con lui, le mani infiammate dagli applausi. E sì che per trent’anni con Dante ci aveva fatto a cazzotti: «La scuola me lo aveva reso il personaggio più odiato della letteratura». Poi la decisione di cavare una ragione alla definizione di tanti capolavori: e Avati lo aveva finalmente incontrato, attraverso un altro amico, il Boccaccio, «che nel 1350 ebbe il compito dalla compagnia dell’Orsanmichele di consegnare 10 fiorini a suor Beatrice degli Alighieri a Ravenna: la figlia di Dante. E voi immaginate questo poeta, filologo, che aveva già studiato e tradotto a lungo la Commedia, che parte su un carro guidato da un carrettiere del comune per incontrare la figlia del suo eroe: un film! Boccaccio era la mia password, il mio detective per arrivare a Dante».
Avati al Meeting come Boccaccio a Ravenna
È nel viaggio per Ravenna e per il Meeting che Boccaccio e Avati raccontano Dante, il bambino che a nove anni perde la mamma e ne riceve dal padre una nuova, trafitto dal dolore della perdita e dell’arrivo di una nuova donna, il bambino che a nove anni si innamora a una festa di una bambina sua coetanea («perché una volta i bambini si innamoravano. Io ho interrogato i bambini che hanno girato la scena dell’incontro tra i piccoli Dante e Beatrice. E ho capito che oggi i bambini non si innamorano più»), una bambina che si chiamava Beatrice Portinari. «E questo l’ha scoperto Boccaccio», racconta Avati al Meeting: «Boccaccio era figlio di una donna francese, cui venne sottratto subito dal padre che in fretta si risposò: ebbene questa nuova donna, la matrigna del Boccaccio, era una erede dei Portinari e aveva conosciuto Beatrice!».
Beatrice che morde il cuore di Dante
Aspettò nove anni per un solo saluto, «nove anni ad andare dietro a Beatrice, sapete come si dice, no, “andare dietro”? A Bologna funzionava così: usciva la Claudia Rizzoli dal portone e tu le andavi dietro, lontano 15 metri. Poi la Claudia andava in merceria, in chiesa, a fare compere e tu sempre lì, 15 metri, finché la Claudia tornava a casa. Tutti andavamo dietro qualcuno, e poi ci si incrociava: tu dietro alla Claudia, Franco dietro alla Margherita, ci si salutava. Ma quante cose belle si perdevano le donne».
E poi, nove anni dopo, Dante la incontrò in chiesa, Beatrice si girò, sorrise e disse solo «vi saluto», e sarà tutto quello che dirà a Dante. Pazzo d’amore, quella notte sognò Beatrice mangiargli il cuore, e come si svegliò sentì il bisogno di scriverne subito, «e io ho capito solo girando la scena – la giovane Beatrice nuda nelle braccia di un enorme sagoma oscura mordere il cuore, il cuore che sanguina -, il dolore, il dramma, l’amore e la poesia che bruciava nel giovane Dante. Non mi sono immaginato nulla, ho solo obbedito a ciò che ha scritto».
«Che ore sono? E diventò mia moglie»
Avati c’è e continuamente conduce, maestro di grazia, cinema ma anche esperienza, nella Bologna della sua giovinezza, quando «le ragazze erano le più brutte d’Italia. Poi un amico mi convinse che le più brutte stavano a Piacenza e seduto a un tavolino di un bar dovetti dargli ragione, ma tant’è. Tra tante ragazze brutte il buon Dio ogni tanto faceva il miracolo e ne mandava sulla terra quattro o cinque bellissime». Quando Avati la incontrò, Nicola girava per mano a un rampollo che non doveva chiedere mai. L’amico Cicci Foresti combinò l’affare, cioè il gelato, quattro gelati. E neanche una volta che gli rivolgesse una parola.
Poi una sera, Cicci gli infilò le chiavi in mano: «Vuole tornare a casa, accompagnala». Per cinque chilometri di tornanti Avati pregò di dire quell’unica cosa che le facesse capire che anche lui era la sua tessera del puzzle. Finché arrivarono al portone, «e allora Dio, fino a quel momento distratto, mi mandò il suggerimento definitivo. Lei scese e io urlai “Guarda”. “Cosa?”. “Questo”. “E cos’è?”. “Un orologio”. Notate che dialoghi: le chiesi “che ore sono?”. Lei mi spostò il polso sotto la lucetta dello specchietto. “Mezzanotte meno cinque”. “Di che giorno?”. “18 febbraio”. “Tra cinque minuti sarà il 19 e allora finirà il giorno del mio compleanno di cui non si è ricordato nessuno e senza un bacio”. Lei ci pensò e mi baciò. Diventò mia moglie dopo pochi mesi. Il mio compleanno è il 3 novembre».
I regali mai scartati dei figli
Poi vennero i tradimenti, la rabbia (un ceffone nel letto, «so tutto», «e chi te l’ha detto?», «un detective», «e chi l’ha pagato?», e dopo questa domanda «avevo le valige sul pianerottolo»), la lontananza, il tornare a scarnificarsi fino a che, esaurita la curiosità e il male, scoprire che no, non era per i figli («un dettaglio era stato decisivo: vivevo con un’altra, andavo a trovarli una volta alla settimana con un regalo che loro lasciavano incartato sulla credenza. Non lo scartavano mai») ma era per lei, la sua tessera del puzzle mancante, che lui era tornato a casa, «e questo fu l’inizio del mio matrimonio». E anche l’inizio di un Avati che tutto questo dolore l’ha reso poesia, cinema, anarchia, e ai grandi dice «non lasciatevi» e ai giovani dice: «Condividete la vita, non siate da soli e fate sempre il passo più lungo della gamba».
Italia, paese piccolo e la Claudia degli anni 50
E parla dell’Italia, «paese piccolo», delle donne afghane che gettano i bambini dall’altra parte del muro mentre noi qui a parlare di green pass, e dell’ambizione, anni fa, di una brunetta, bassina, riccia che «mi avrebbe rovinato un film» – un film che era già una seconda e forse ultima occasione – presentandosi sostituendo una amica, una a lungo cercata Grace Kelly italiana, e che Avati insultò per 24 ore prima di sentirla aprire bocca e prostrarsi e scusarsi riconoscendo un enorme talento («come ti chiami?», «Mariangela Melato»).
Avati che parla dei discorsi scritti per un Oscar mai vinto, del dovere di aspettarsi sempre dalla vita qualcosa di straordinario e del cinema, del prossimo Festival di Venezia e di nuovo io. Un io che è una vita di amore, dolore, ritorno alla collina della saggezza contadina, all’io bambino che capisce il vecchio, perché è questo il talento e al contempo lo strumento divino di amore, ambizione, poesia, cinema: la vulnerabilità. Che è solo dei vecchi e dei piccini. E dei registi che scappano da Roma a Rimini per parlare di talento e si offrono, con la capacità e la grazia della sofferenza con la loro opera, il loro mimare i quindici metri dietro a una Claudia della Bologna degli anni Cinquanta. Avati che è un drago e che per parlare di loro, di noi, continua a catturarci con il suo io.