Due miliardi e settantaquattro milioni di euro a maggio 2013: è l’ennesimo record negativo fatto registrare dal debito pubblico italiano. Ma cosa occorre fare per ridurre lo stock del debito? Secondo Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, è semplice: bastano quattro mosse, proprio quelle che l’Italia dice di voler mettere in fila da almeno vent’anni. Salvo poi ripensarci e non far seguire i fatti agli annunci.
Stagnaro, è l’ennesimo record del debito pubblico, ormai non fa quasi più nemmeno notizia. È cambiato qualcosa?
Certo, la sua composizione è mutata negli anni. Fino a tre o quattro anni fa, infatti, come in tutto il periodo pre-crisi del resto, la parte maggioritaria del debito era detenuta da investitori stranieri; diciamo che il 60 per cento del debito pubblico era in mani estere e il 40 per cento in mani italiane. Ora questo rapporto si è invertito, con il 55 per cento del debito pubblico detenuto da investitori italiani e il 45 per cento da stranieri.
Che cosa significa?
Vuol dire che tutto l’aumento di stock del debito intercorso in questi anni di crisi è stato essenzialmente acquistato dalle banche italiane, che se ne sono fatte carico per compensare la riduzione del debito prima in mano estera.
Come si spiega questo cambiamento?
Se ne può dare una duplice interpretazione. In primo luogo, le banche italiane sono state molto probabilmente sottoposte a una forma particolare di “moral suasion” da parte dei governi affinché acquistassero con i soldi della Banca centrale europea (Bce) i titoli del debito pubblico per evitare l’ascesa dello spread. In cambio hanno ottenuto la legittima aspettativa che, in caso di default, sarebbero state salvate dallo Stato. Certo, per farlo, hanno dovuto mettersi in una posizione non così entusiasmante sotto il profilo del rischio e degli investimenti.
E la seconda spiegazione?
Grazie a questa nuova composizione del debito, un eventuale default del paese sarebbe in un certo senso meno costoso, perché più facilmente mascherabile. In caso di default, infatti, se il debito fosse in mano a stranieri si potrebbero sì dilazionare i pagamenti nel tempo, ma alla successiva asta di Bot e Cct non si presenterebbe più nessun investitore estero; mentre se il debito è in mano nostra basterebbe non pagare le famiglie italiane, oppure si potrebbe scongiurare il default con una patrimoniale o elevando la pressione fiscale, lasciando tutto apparentemente invariato da un punto di vista meramente contabile. Peccato però che così non torneremmo più a crescere.
Ci sono alternative?
Una terza via, in realtà, ci sarebbe. È quella che tutti ci dicono di percorrere da almeno vent’anni, da ultimo anche la famosa lettera dell’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet e del suo successore Mario Draghi. Si tratta di aggredire lo stock di debito alla sua base, alimentando al tempo stesso la crescita del Pil attraverso liberalizzazione dei servizi pubblici e privatizzazioni su larga scala. L’Istituto Bruno Leoni ha stimato che così in 5 anni si potrebbero tagliare almeno 150 miliardi di euro di debito pubblico. Poi si dovrebbero abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese, in particolare l’Irap e l’Irpef, per rilanciare la crescita, tagliare la spesa pubblica e riformare la pubblica amministrazione a partire dalla giustizia.
Perché non lo facciamo?
Per farlo ci vogliono progetti credibili, mentre finora abbiamo solo perso tempo con annunci a cui mai sono seguiti i fatti. Peccato che perdendo tempo si perda anche la credibilità agli occhi del mondo e degli investitori.