Dal sacrificio umano di Vincent Lambert, un’amara lezione per tutti noi

Di Roberto Colombo
10 Luglio 2019
È un caso, un errore che quell'uomo sia rimasto per tutti questi anni in un reparto per malati terminali, pur non essendo in fin di vita? No, non lo è
Vincent Lambert

Con una lettera resa pubblica ieri dai coniugi Viviane e Pierre Lambert e da due dei loro figli, Anne e David, è stato comunicato che la morte di Vincent per eutanasia, il cui protocollo era iniziato una settimana fa, «è ormai ineluttabile». Con profondo ma lucido dolore, hanno ammesso che, «questa volta, è finita. I nostri avvocati hanno moltiplicato i ricorsi negli ultimi giorni e compiuto le ultime azioni per far rispettare l’appello sospensivo all’Onu che aveva giovato a Vincent» nel maggio scorso, quando la procedura clinica era stata interrotta dopo poche ore per ordinanza del tribunale d’Appello francese.

I familiari di Vincent hanno rivolto un ringraziamento a coloro che gli sono stati vicini, «per la vostra amicizia, il vostro amore, il vostro sostegno, le vostre preghiere durante tutti questi anni. Non rimane altro da fare che pregare e accompagnare il nostro caro Vincent, nella dignità e nel raccoglimento. Voi tutti siete con noi con il pensiero e la preghiera per Vincent».

Siamo noi che desideriamo ora ringraziare Vincent e papà e mamma Lambert per quello che ci hanno insegnato e testimoniato, con dignità grande e coraggio inesauribile, attraverso questa dolorosissima vicenda umana, che ha visto incontrarsi e scontrarsi – come in ogni dramma umano – il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’accoglienza e il rifiuto, la verità e la menzogna, la trasparenza e la mistificazione, la ragionevolezza e l’ideologia, l’innocenza ferita e la prepotenza violenta, la forza della fede e della speranza e la debolezza del formalismo procedurale e delle precarie certezze umane.

Viviane e Pierre, genitori di Vincent Lambert

UNA OSTINAZIONE IRRAGIONEVOLE

Ci ha fatto soffrire, partecipando al dolore dei coniugi Lambert, tanto accanimento contro la vita di loro figlio, persino da parte di chi lo ha amato e lo ha sposato quando era un giovane forte e sano, un infermiere stimato e appassionato al suo lavoro e ai pazienti che curava con attenzione e dedizione grande. Anche coloro che, per professione e vocazione civile, avrebbero dovuto prendersi cura di lui fino all’ultimo istante della sua vita ‒ i medici che lo hanno avuto come loro paziente al policlinico universitario di Reims ‒ hanno perseguito, con ostinazione irragionevole, il progetto di porre fine intenzionalmente alla sua vita.

Per tacere di chi amministra la giustizia in uno Stato di diritto quale è la Francia, che in diversi gradi giudizio (non tutti) anziché difendere la vita di un debole e innocente cittadino – la cui unica “colpa” è quella di essere un disabile motorio e neurologico grave, che necessita di essere assistito in strutture sanitarie adeguate, come diverse migliaia di altri francesi malati, in condizioni di non-autosufficienza cronica paragonabile a quella di Vincent – hanno autorizzato la sua soppressione, assecondando la volontà eutanasica della moglie e di alcuni medici sotto copertura politica, sicuri di essere politicamente coperti.

IL RICOVERO TRA I MALATI TERMINALI

Qual è la lezione che resterà nella storia della medicina francese ed europea, quando si sarà concluso il dramma umano di Vincent? Più di una, sicuramente. Servirà tempo, riflessione e coraggio per metterle pazientemente in luce, argomentarle con realismo, ragionevolezza e moralità, e trasmetterle ai nostri figli e ai nostri allievi. Qui accenno ad una sola, la prima e più evidente ai miei occhi, e anche quella che non si può dimenticare a fronte delle scadenze che attendono i legislatori e i giudici d’Oltralpe e italiani nei prossimi mesi, quando saranno chiamati ad esprimersi su modificazioni o integrazioni delle cosiddette “leggi di fine vita” (in Italia, la 219/2017, sul consenso informato, le cure palliative e le disposizioni anticipate di trattamento [Dat]; in Francia, la 87/2016, la legge Claeys-Léonetti si cura dei malati cosiddetti “terminali”).

Non è sfuggito ai più attenti osservatori che Vincent Lambert è ricoverato nella Unité de soins intensifs (Usi; Unità di cure palliative) del Centre hospitalier universitaire (Chu; Policlinico universitario) di Reims. Dunque, una struttura specializzata nel prendersi cura dei pazienti inguaribili nelle ultime fasi della loro malattia (oncologica, neurodegenerativa, cardiologica, infettiva, metabolica o altro), quando ormai ogni terapia convenzionale o sperimentale è stata abbandonata perché manifestamente troppo invasiva, sproporzionata o futile. I pazienti che ricevono cure palliative devono essere assistiti solo nelle loro funzioni fisiologiche con trattamenti di sostegno vitale (non terapie contro la patologia che li sta inesorabilmente avvicinando alla morte) e analgesici (fino ad arrivare, eventualmente, alla sedazione, quando il dolore è refrattario) per non farli soffrire oltre quanto lo stesso malato appare essere in grado di sopportare dignitosamente. Per questo è nata e si sta sviluppando la “medicina palliativa”: non per altri scopi. E in un centro universitario come quello di Reims ‒ dove essa viene insegnata, praticata e migliorata ‒ non possiamo certo pensare che manchino le competenze e le esperienze per coltivarla secondo la regola dell’arte medica.

IL REPARTO “SBAGLIATO”

Come è possibile che il paziente Lambert sia rimasto per così lungo tempo in una unità di cure palliative (dove i tempi medi di degenza sono assai più brevi) e non sia stato trasferito – come ripetutamente chiesto dai suoi genitori – in un centro specializzato per i cerebrolesi post-traumatici, dove avrebbe potuto ricevere tutte le cure interdisciplinari richieste da un approccio integrato a questo tipo di disabilità grave ed appropriate alla sua condizione clinica? La ostinazione nel non trasferire Vincent, facendolo rimanere nel reparto “sbagliato” (un errore nella gestione del paziente che viene evidenziato in ogni ospedale come causa di grave disservizio sanitario, non appropriatezza delle cure prestate e dissipazione amministrativa da erronea allocazione delle risorse umane, strutturali e finanziarie), da dove nasce e cosa tradisce? Si tratta di un errore isolato, di uno tra i pochi casi che sorgono da inadeguate valutazioni dello status del paziente da parte di medici con scarsa esperienza o inadeguata preparazione a prendersi in carico soggetti con quadri pluripatologici complessi e relativamente infrequenti? Oppure siamo in presenza di un “difetto strutturale” del sistema sanitario di alcuni paesi che si fa strada a partire da scelte cliniche condivise da un crescente numero di operatori che hanno in comune determinate posizioni etiche, culturali e sociali in sintonia con direttive di politica sanitaria volte a contenere la spesa nazionale per la salute abbattendo i costi per le cure degli inguaribili più gravi, dei disabili che richiedono maggiori attenzioni ed équipe multidisciplinari specializzate, e degli anziani lungodegenti con scarse probabilità di recupero dell’autonomia funzionale ma comunque stabilizzati e non ancora nella fase terminale della loro storia clinica?

NON È STATO UN CASO

Partiamo dall’ultima domanda. Purtroppo, non si tratta di casi sporadici, limitati a qualche situazione particolarmente complessa da gestire clinicamente o a quadri patologici rari che trovano impreparati i sanitari di ospedali non dotati di unità attrezzate per affrontare simili casi. Non è certo la situazione di Reims, dove un qualificato policlinico universitario dispone di competenze cliniche e strutture sanitarie d’avanguardia e può contare, in un paese come la Francia, su una rete di ospedali e centri in cui sono presenti reparti specialistici (circa 150 sono le unità dove vengono assistititi regolarmente i pazienti in stato paucirelazionale con funzionalità cardiocircolatoria e respiratoria intatta, come Vincent). Non è neppure quella del Great Ormond Street Hospital di Londra, rinomato ospedale pediatrico britannico dotato di professionisti e attrezzature d’avanguardia, dove era ricoverato il piccolo Charlie Gard, e neanche dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, in cui è morto Alfie Evans. Grandi ospedali specializzati del Regno Unito, dove la ricerca, la diagnostica, la terapia e le cure per gli inguaribili hanno una lunga e gloriosa storia. Eppure, per i bambini con malattie a prognosi infausta come per gli adulti simultaneamente disabili fisici e mentali, si apre la strada dell’eutanasia laddove non mancano competenze e strutture per la cura di chi non può guarire.

IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA

Che la decisione di porre fine intenzionalmente alla vita di Vincent ‒ così come a quelle di Charlie, Alfie e altri anziani, adulti e bambini ritenuti “senza speranza di una vita dignitosa” ‒ non nasca da “schegge impazzite” del sistema sanitario di una nazione ma sia il frutto amarissimo dell’incontro mortale di una deriva culturale clinica, antropologica, etica e sociale, che porta un numero crescente di professionisti della salute e di semplici cittadini a considerare “disumana” o “priva di valore umano” l’esistenza di queste persone, con una pressione politico-sanitaria di alcuni governi per il rimodellamento o la riduzione della spesa pubblica destinata alla cura dei malati, è suggerito dal ruolo decisivo svolto dalla magistratura. In taluni paesi europei – dove la “cultura della vita umana” va declinando di pari passo con l’ascesa di una drastica spending review sanitaria che colpisce le fasce più deboli della popolazione ‒ i tribunali, forti di un duplice consenso culturale e politico verso la negazione della vita come bene fondamentale e inalienabile della persona in qualunque condizioni fisica o mentale venga a trovarsi, si atteggiano sempre più a difensori delle “cause di morte” sollevate dai medici che a paladini delle “cause di vita” promosse da chi ha a cuore la cura anche di chi non può guarire. Così, il diritto non diviene più strumento per la difesa dei deboli e degli innocenti, ma arma per l’affermazione tout court della ragione di Stato e dei suoi funzionari pubblici nel settore della sanità.

LA NATURA DELLE CURE PALLIATIVE

Infine, consideriamo la prima domanda. Qual è l’autentica natura delle cure palliative – che le rende non solo eticamente corrette, ma anche antropologicamente e socialmente desiderabili –, a chi sono destinate, e cosa deve essere escluso dalle azioni poste in essere nei luoghi delle cure palliative perché esse rappresentino un’alternativa clinicamente e moralmente buona alla strada dell’eutanasia, alla richiesta di porre fine anzitempo alla vita di un malato inguaribile?

Quella particolare forma della cura che prende il nome di “palliazione” fa riferimento – quando usata correttamente – ad un approccio integrato alla persona del paziente in uno stadio della sua malattia nel quale non solo ogni terapia disponibile risulta inappropriata a contenere l’evoluzione negativa di essa e/o la sofferenza che essa provoca, ma colloca il malato in un inarrestabile declino delle sue condizioni generali, il cui esito prossimo e inevitabile appare essere la morte. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, le cure palliative servono a dare sollievo dal dolore fisico e dagli altri sintomi che provocano sofferenza; affermano il valore della vita e considerano la morte come un evento naturale; non hanno lo scopo né di accelerare né di posticipare la morte del malato; e offrono un sistema di supporto per aiutare i pazienti a vivere nel modo migliore possibile fino al decesso (2004).

LA POSSIBILITÀ (E L’ABUSO) DELLA SEDAZIONE

Nel caso del dolore cosiddetto refrattario – quello che non risponde adeguatamente agli analgesici per via orale o parenterale – è possibile e lecito ricorrere, nell’ambito degli scopi delle cure palliative sopra ricordati, anche alla sedazione temporanea o permanente del paziente, che provoca la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, al solo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo legato alla sua condizione patologica e intollerabile per il malato. La sedazione più giungere ad essere anche “profonda”, abolendo completamente la stato di coscienza (vigilanza e consapevolezza). Le norme della buona pratica clinica per i pazienti in cura palliativa e la Chiesa stessa – lo ha ricordato il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, lo scorso anno ad un convegno tenutosi in Vaticano – ammettono la sedazione profonda «come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni» e «distinguendola dall’eutanasia», in quanto non deve essere il presupposto né lo strumento per abbreviare intenzionalmente e premeditatamente la vita del paziente, anche quando essa volge ormai al suo declino.

Nel caso di Vincent Lambert, questo è ciò che sta purtroppo avvenendo: un uso della sedazione per togliere non il dolore causato dalla malattia di cui è affetto (che in Vincent è assente o perfettamente controllabile al bisogno con i soli analgesici), ma quello indotto dalla disidratazione e dalla inanizione provocate dalla sospensione della somministrazione adeguata di fluidi e nutrienti. E, come per lui, è avvenuto anche par altri pazienti in stati clinici paucirelazionali (stati vegetativi persistenti, stati di coscienza minima): pazienti stabilizzati ormai da anni o in lentissimo declino generale delle condizioni fisiche, non stimolati cardiacamente né ventilati meccanicamente, e per nulla prossimi alla morte (non in stadi terminali di malattia), ma nei quali la morte è stata indotta per privazione di acqua, sali minerali, vitamine e sostanze alimentari.

ATTACCO ALLA SACRALITÀ DELLA VITA

Come scrive il giurista e bioeticista Antonio Casciano sul sito web della Fondazione Ut vitam habeant, promossa dal cardinale Elio Sgreccia recentemente deceduto, «dietro il ricorso a questa pratica [la sedazione profonda] spesso è facile rinvenire intenti e fini autenticamente eutanasici». Essa è eutanasica, in quanto parte integrante di un protocollo di eutanasia omissiva, quando «non [è] volta ad alleviare il dolore, ma piuttosto ad occasionare una condizione permanente con cui si sceglie di spegnere, in maniera definitiva, anche se progressiva», la vita del paziente.

«È il genere di cure palliative che attenta al principio della sacralità della vita umana, nella misura in cui si accompagna al rifiuto delle cure mediche necessarie, anche di quelle più elementari, come l’interruzione prematura dell’idratazione e della nutrizione quando il corpo del paziente assimila ancora sostanze nutritive [e le metabolizza adeguatamente]. Quando si effettua una sedazione palliativa in vista dell’interruzione della nutrizione e dell’idratazione […] si concorre a determinare un atto pienamente eutanasico, anche se la morte del paziente non segue direttamente alla sedazione, bensì all’interruzione dei sostegni vitali citati innanzi. L’alterazione profonda e permanente della coscienza individuale è invece moralmente accettabile solo quando: (1) si tratta di un effetto collaterale, non direttamente perseguito dal medico, non intenzionale del trattamento del dolore agonizzante; (2) il dolore non è altrimenti trattabile; (3) il paziente trova che la sofferenza patita a causa della patologia sia insopportabile e degradante; (4) si è già nell’imminenza della morte del paziente, il cui decorso potrebbe eventualmente essere accelerato dalla somministrazione dei farmaci sedativi. In presenza di siffatte condizioni, si ritiene che la pratica della sedazione palliativa, ancorché profonda, perdurante e irreversibile, continui a contemplare i criteri propri dell’atto medico, e dunque è non solo moralmente lecita, ma in talune circostanze addirittura doverosa».

VIGILARE SU LEGGI E PROTOCOLLI

Occorrerà vigliare affinché, nelle integrazioni e modifiche alle attuali leggi sanitarie sul “fine vita”, l’eutanasia esclusa di principio dalle cure palliative – proposte, anzi, come alternativa clinicamente appropriata ed eticamente accettabile alla domanda e all’offerta eutanasica – non rientri surrettiziamente in esse attraverso l’applicazione di protocolli di sospensione dell’idratazione, della nutrizione o di altri supporti fisiologici vitali in pazienti che non hanno indicazioni cliniche per essere posti in cura palliativa, non essendo nella fase degenerativa o terminale della loro malattia, ma abbisognano di essere presi in cura da équipe multidisciplinari che ne promuovano e ne sostengano la vita in modo pienamente umano, secondo le necessità e le attese di loro stessi e dei loro cari.

Vincent andava accompagnato nella vita, non abbandonato alla morte.

Foto Viviane e Pierre Lambert: Ansa

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