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Perché è importante l’intervento dell’Onu sul caso Lambert

È la prima volta che un Comitato Onu interviene platealmente su una vicenda di peso internazionale, esponendosi in modo inedito

Assuntina Morresi
23/05/2019 - 4:00
Esteri
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L’intervento del Comitato Onu dei Diritti delle persone con disabilità, che ha salvato la vita a Vincent Lambert almeno per i prossimi sei mesi, è un precedente importantissimo, e potrebbe essere una vera e propria pietra di inciampo nel dilagare apparentemente inarrestabile delle leggi su eutanasia e suicidio assistito.

È la prima volta che un Comitato Onu interviene platealmente su una vicenda di peso internazionale, esponendosi in modo inedito. Lo può fare grazie al protocollo aggiuntivo della Convenzione stessa, dove è previsto che il Comitato che ne monitora l’applicazione da parte degli stati che l’hanno sottoscritta può ricevere segnalazioni di sue violazioni, procedere per indagare e pronunciarsi nel merito. Il suo parere non è legalmente vincolante ma ha un peso politico straordinario, e l’atteggiamento del ministro della Sanità francese lascia capire l’intenzione di attenersi a quanto verrà indicato.

Fra i vari articoli di cui si contesta la violazione, uno in particolare, il n.25, che prevede l’obbligo degli Stati di «prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità», è stato formulato mentre si lavorava ancora sul testo della Convenzione, inserito dopo la drammatica morte di Terri Schiavo, proprio per evitare che quella tragedia si ripetesse.

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Se il Comitato si pronunciasse per continuare a far vivere Vincent Lambert, porrebbe un vero e proprio argine alla mentalità e alle leggi eutanasiche, solitamente introdotte dietro la maschera dei legittimi rifiuto e rinuncia delle cure. Nancy Cruzan e Tony Bland, Terry Schiavo e Eluana Englaro: i principali “casi famosi” che hanno traghettato l’idea secondo la quale in certe condizioni è preferibile morire perché “quella non è vita”, riguardano persone in stato vegetativo, non in fin di vita e sostenute solo da alimentazione e idratazione artificiale.

Ne spiega le ragioni Maurizio Mori, a lungo Presidente della Consulta di Bioetica  – l’associazione che più di tutti ha sostenuto le richieste di Beppino Englaro – nel suo Il caso Eluana Englaro:

«Il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina. Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana. Sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali implica abbattere una concezione dell’umanità e cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria che affonda le radici nell’ippocratismo e anche prima nella visione dell’homo religiosus, per affermarne una nuova da costruire. Come Porta Pia segna la fine del papa re e di un paradigma del ruolo sacrale della religione in politica, gettando le basi di un’aurorale democrazia in Italia, così il caso Eluana segna la fine (sul piano teorico) del paternalismo in medicina e di un paradigma medico fondato sul vitalismo ippocratico, gettando le basi di un aurorale controllo della propria vita da parte delle persone».

Il percorso eutanasico ha uno schema che si ripete spesso, a tre passi. Il primo è utilizzare una condizione estrema come lo stato vegetativo, dove la perdita di autonomia e di comunicazione con l’esterno è evidente a tutti, anche ai non addetti ai lavori: sono queste le condizioni per cui è più facile far passare l’idea che morire può essere preferibile a vivere. Il secondo è definire idratazione e alimentazione artificiali come “trattamento sanitario”, anziché riconoscerle come accudimento; si sposta l’attenzione sul presidio sanitario necessario, cioè il sondino o la peg, sottolineando che serve un medico per applicarlo a una persona.

Il terzo è la logica conseguenza: per ogni trattamento sanitario è necessario il consenso del paziente, consenso che sarebbe scontato se si parlasse esplicitamente di sostegno vitale, cibo e acqua – chi chiederebbe mai di morire, o far morire qualcun altro, di fame e di sete? In quale legge potrebbe essere scritto con chiarezza? –, e che non lo è più se il sostegno lo si chiama “terapia”.

Gli estremi per un contenzioso ci sono tutti. Anche nei casi in cui c’era accordo fra familiari, rappresentanti legali e medici, le leggi di tutti i paesi occidentali erano ispirate al favor vitae, e procedere al distacco di alimentazione e idratazione di una persona costituiva sempre un reato: inevitabile il coinvolgimento di un tribunale.

I contenziosi vinti da chi chiedeva l’interruzione dei sostegni vitali hanno quindi aperto la strada a un nuovo paradigma, dove la scelta di morire ha lo stesso valore di quella di vivere, e la sospensione di alimentazione e idratazione viene legittimata, equiparata a un atto medico. La morte medicalmente assistita entra così a far parte del corredo delle opzioni terapeutiche, anche se estreme. La parola eutanasia non compare mai, e se si parla di suicidio si accompagna sempre a “assistito”, per sottolinearne la “sicurezza”, rispetto alla drammaticità di chi si butta da solo da un ponte. Ma è questione di tempo: una volta cambiata la mentalità e acquisita la nuova prospettiva, soprattutto da parte dei medici, prima o poi arriveranno anche leggi ulteriori ed espressioni esplicite.

Se invece la persona in stato vegetativo è riconosciuta come “disabile”, vengono meno tutti i presupposti di cui sopra, perché all’idea di “disabile” non si associa quella di “vegetale”, “quasi morto”, “vita solo biologica”. Un disabile è un cittadino, indubbiamente vivo e tutelato dalla legge in ogni paese civile. Difficile ammettere che sia una “ostinazione irragionevole” dargli da mangiare e da bere, anche con un presidio sanitario: si sa che i disabili ne usano sempre, di tutti i tipi.

Se il Comitato Onu darà ragione ai genitori di Vincent Lambert, quindi, sarà un vero sconquasso rispetto al quadro normativo eutanasico che abbiamo appena descritto, perché ne verranno minati i presupposti. Non è difficile ipotizzare che i prossimi sei mesi saranno complicati, per il Comitato: la riservatezza a cui è tenuto non lo terrà certo al riparo da pressioni esterne, inevitabili. La sua decisione finale, qualunque sia, è destinata a lasciare un segno pesante. Speriamo tutti sia un segno di vita. (Continua)

Tags: FranciaONUvincent lambert
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