Cristiani perseguitati in Corea del Nord. Massacrati in cella, «finché il sangue schizzava»

Di Caterina Giojelli
05 Novembre 2021
Arrestati di notte, rimpatriati dalla Cina, torturati fino alla morte o spediti nei terribili gulag gestiti dal regime. Il loro crimine? Credere in Cristo, possedere una Bibbia, essere stati sorpresi in preghiera. Un drammatico rapporto dal paese di Kim Jong-un
Korea Future ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani e le persecuzioni dei cristiani in Corea del Nord
Korea Future ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei diritti umani e le persecuzioni dei cristiani in Corea del Nord (foto Ansa)

I cristiani «pregavano nell’angolo della cella nascosto alla telecamera», finché un giorno vennero sorpresi dalle guardie, «vennero così picchiati ogni mattina per 20 giorni consecutivi». Siamo in Corea del Nord, a parlare è un detenuto che per due mesi condivise la cella con un piccolo gruppo di cristiani perseguitati. Cioè vittime di attacchi sistematici, né arbitrari né casuali, volti unicamente alla distruzione delle comunità dei fedeli nel paese in cui «il popolo è Dio», Kim Jong il suo profeta e se si viene sorpresi in preghiera o in possesso di una Bibbia si viene fucilati senza processo e inviati in un gulag.

Ad aggiornare l’inchiesta Onu sulle violazioni dei diritti umani nel paese è il rapporto Persecuting Faith: documentazione delle violazioni della libertà religiosa in Corea del Nord (volume 2) di Korea Future, pubblicato il 27 ottobre in occasione della Giornata internazionale della libertà religiosa 2021 (qui si può scaricare il dossier). Sono 456 i casi documentati di violazione dei diritti umani perpetrati, nel 97 per cento dei casi, dai funzionari dello stato coreano. In 167 casi si parla in particolare di persecuzioni inflitte, tra il 1997 e il 2018, a cristiani privati arbitrariamente della libertà, del diritto a un processo equo, sottoposti a «tortura o trattamenti crudeli, inumani e degradanti». Diciotto le condanne all’ergastolo accertate, ma nel 67 per cento dei casi non è stato possibile identificare la durata della pena: il “condannato” più giovane e deportato nei campi di detenzione, a quanto risulta da rapporto, è un bambino di 2 anni.

Tra i criminali “politici” un bimbo di due anni

Le prove e i dettagli contenuti nel rapporto si basano su una difficile indagine condotta nel 2020 e in molti casi «collegano specifiche violazioni dei diritti umani ad autori e organizzazioni statali. In altri casi siamo in grado di stabilire ulteriori collegamenti con strutture di comando; documenti che dimostrano pianificazione, coordinamento e intenti nella persecuzione delle comunità religiose; e funzionari di alto rango che alla fine potrebbero essere responsabili di attività criminali». Ancora, «Abbiamo documentato 72 casi di privazione arbitraria della libertà e negazione di un giusto processo senza base giuridica (…) in 56 casi le vittime sono state arrestate e incarcerate per avere manifestato la propria fede» o perché trovati in possesso di Bibbie e crocifissi (anche minori di 18 anni) senza mandato di cattura. Aderire al cristianesimo è considerato in Corea del Nord un crimine politico e nel 2009 un’intera famiglia di cinque persone di Hoeryong è stata arrestata di notte e condannata all’ergastolo in un campo per detenuti politici gestito dal ministro della Sicurezza di Stato: con loro anche un piccolo di 2 anni.

Venticinque i casi di rimpatrio dalla Cina: Kim Gap Ji, arrestato in compagnia di un pastore in missione nella provincia di Shandong, è stato indagato e torturato per cinque anni perché confessasse le sue credenze religiose che gli avrebbero valso un biglietto di sola andata per un campo di prigionia politico. Non l’ha fatto e il regime l’ha spedito in un campo di rieducazione a Chongori, accusandolo di espatrio illegale. Una volta rilasciato, Kim ha continuato a predicare segretamente il cristianesimo finché, nel 2017, scoprendo che tra la sua comunità di fedeli si celava un informatore del ministero della Sicurezza di Stato, è scappato dalla Corea del Nord.

«Cristiani tra le sbarre, finché il sangue schizzava»

Le torture – 28 i casi documentati da rapporto – consistono in percosse fisiche con oggetti, pugni e calci; ingestione di cibo contaminato; privazione del sonno; salti squat fino allo sfinimento. Ko Sun Hee, detenuto nel centro gestito dal ministero della Sicurezza nella contea di Onsong, ha raccontato che le guardie intrappolavano la testa dei detenuti, sospettati di leggere la Bibbia di nascosto, tra le sbarre della cella, per poi colpirli ripetutamente in faccia «finché il sangue schizzava verso l’alto». Una giovane donna, arrestata perché in possesso di una Bibbia, venne percossa con un bastone di legno finché un superiore fermò la mattanza degli agenti penitenziari; ma in molti casi i pestaggi violenti per estorcere confessioni e nomi di cristiani, a mani nude o con bastoni ricurvi, hanno portato alla morte.

Nam Tae Hee ha condiviso la cella a Pyongyang con un cristiano subendo le sue stesse torture, «ci facevano sedere con la testa chinata a terra colpendoci ripetutamente con un ceppo di legno (…) ci picchiano con pugni e sbarre d’acciaio (..) Ci hanno detto che non eravamo persone, che eravamo meno che bestie. Ci costringevano a camminare a testa bassa tenendoci per mano». Spesso i detenuti sono stati costretti a restare seduti a gambe incrociate per 10 ore al giorno.

A gambe incrociate, immobili, per dieci ore

Racconta Lee Kang: «Dovevamo restare fermi, seduti sul pavimento e posizionati su due file con le gambe incrociate in modo che gli ufficiali penitenziari potessero tienici d’occhio usando la telecamera a circuito chiuso. Eravamo a 0,7 metri di distanza dalla persona al nostro fianco, e 1 metro dalla persona seduta dietro di noi (…) In questa posizione ti proibiscono di parlare o muoverti, quindi è impossibile pregare all’interno delle celle (…) I funzionari del Ministero della Sicurezza di Stato ti avrebbero ucciso se avessero scoperto che avevi affiliazioni religiose. Se avessi confessato che eri andato in chiesa o credevi in Gesù non avrebbero cessato di picchiarti». Jo Hyeon Woo ha assistito al pestaggio e alle torture di cittadini stranieri come il cristiano cinese Han. Anche una donna europea è stata arrestata per essere entrata in Corea del Nord con una Bibbia. Secondo i testimoni, i detenuti condannati a morte hanno ricevuto un trattamento «migliore» rispetto a quello dei cristiani che non erano stati condannati alla pena capitale.

Cristiani perseguitati, “drogati, peccatori, vampiri”

Tempi si è occupato più volte di raccontare le storie dei perseguitati in Corea del Nord dove si stima che nei terribili campi di sterminio ci siano attualmente fino a 50 mila cristiani su 200 mila persone. Come l’inchiesta dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani nel paese ha confermato, «chi pratica la religione viene perseguito come un criminale». Il cristianesimo in particolare è paragonato «alla droga, ai narcotici, al peccato e all’invasione capitalista». I missionari sono paragonati in pubblico a «vampiri che succhiano il sangue». Dove non esiste altro Dio che «l’eterno presidente» e pregare porta dritto al gulag.

Storie di cristiani come Sang-Hwa e di Prigioniera 42 (ricordate la storia della cristiana sopravvissuta alla ferocia del regime comunista  anno in una prigione nordcoreana, e poi due in un campo di rieducazione, tra botte, umiliazioni, solitudine, alienazione) e di prigionieri “politici” come quella di Shin Dong-hyuk, nato in un gulag ed evaso per fame dopo aver fatto giustiziare la madre e il fratello. O di Park Ju-yong, i primi 23 anni della sua vita trascorsi nel campo di Pukchang per un crimine commesso da un parente e che prima di scappare, ha assistito a centinaia, forse migliaia, di esecuzioni pubbliche. Non riesce a ricordare bene il numero esatto. Questa è la sua testimonianza dal Campo 18, scappato dal quale si ritiene «fortunato, ho assistito alla mia prima esecuzione pubblica quando ero già abbastanza cresciuto. Prima mia mamma è sempre riuscita a nascondermi. Avevo già nove anni quando le guardie mi hanno obbligato per la prima volta a lanciare pietre contro un uomo condannato a morte per avere disobbedito al Leader supremo. Ci obbligavano a picchiarlo selvaggiamente e solo dopo gli sparavano un colpo alla testa». Non sa dire «se cose simili accadono ancora oggi sotto Kim Jong-un. Non sono più in contatto con nessuno nel Nord, ma chi ha ancora amici sotto il regime mi assicura di sì. Si tratta di crimini inimmaginabili anche se dopo un po’ di tempo ho cominciato a non farci più caso. Non provavo più alcun sentimento od emozione nel vedere la gente morire così. Ne avevo viste troppi».

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