Mi chiamo 42
Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio (l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!)
Il nome che ho dalla nascita è stata la prima cosa che mi hanno portato via quando sono arrivata qui. Il mio nome ora è: “Prigioniera 42”. Ogni mattina all’alba gridano: “42!” e a quel punto devo strisciare attraverso la porticina della cella. Quando mi alzo, non mi è permesso guardare le guardie. Devo alzarmi, tenere le mani dietro la schiena e seguirle fino alla stanza degli interrogatori. Mi portano lì dentro ogni giorno alla stessa ora. Ogni giorno mi fanno le stesse domande.
«Perché eri in Cina?»
«Chi hai incontrato?»
«Sei andata in chiesa?»
«Avevi una Bibbia?»
«Hai incontrato qualche sudcoreano?»
«Sei cristiana?»
Sono cristiana? Sì. Amo Gesù, ma durante gli interrogatori lo nego. Se ammettessi di essere stata aiutata da cristiani cinesi, mi ucciderebbero, velocemente o lentamente, non fa differenza. Ma comunque mi ucciderebbero. Ho tanta paura qui. Mi picchiano e mi prendono a calci ogni giorno. Mi fa più male quando mi colpiscono le orecchie, perché poi ronzano per ore, a volte per giorni. Alla fine della giornata mi riportano nella mia cella. La mia cella è calda di giorno e fredda di notte. È così piccola che riesco a malapena a stendermi. Non mi è permesso sdraiarmi a lungo. Devo starmene sulle ginocchia, con i pugni chiusi. Non mi è nemmeno permesso aprirli.
Sono in isolamento, perché pensano che io creda in Dio. Mio nonno credeva veramente in Dio. Quando ero piccola, la domenica mi diceva spesso di uscire di casa e giocare fuori. Non capivo perché e non volevo, ma lui mi costringeva: ero una bambina e non dovevo ascoltare ciò che accadeva in casa.
Quando scappai in Cina a causa della carestia in Corea del Nord, incontrai altri cristiani. Fui toccata dal loro amore. All’inizio non mi parlarono molto del Vangelo, ma partecipai ai loro incontri. Poi, una notte, sognai mio nonno. Lo vidi seduto in cerchio con altri uomini. C’era una Bibbia in mezzo e tutti stavano pregando. Nel mio sogno, gli gridavo: «Anch’io, anch’io sono una credente!».
Ho sempre pensato di essere come il Giuseppe della Bibbia, il primo della famiglia a credere veramente in Dio, ma ora mi rendo conto che in realtà provengo da una famiglia cristiana. In quelle domeniche lontane, mio nonno in realtà ospitava riunioni segrete di cristiani e mi teneva distante poiché ero troppo piccola per garantire loro di non dirlo a nessuno.
Un giorno, camminavo per strada in Cina e accanto a me si fermò un’auto nera. Pensavo che il conducente volesse chiedere indicazioni stradali, ma lui e altri uomini scesero dal veicolo e mi afferrarono di peso. Terrorizzata, cercai di resistere, ma non riuscii a scappare. Mi costrinsero a salire in macchina e, quando la portiera si chiuse dietro di me, mi resi conto che la mia vita era finita.
Dopo qualche settimana in una cella di una prigione cinese fui consegnata alle autorità nordcoreane. Mi portarono in questo centro di detenzione. Mi fecero togliere tutti i vestiti e perquisirono ogni parte del mio corpo in maniera invasiva per vedere se nascondessi qualcosa, soprattutto denaro. Che umiliazione…
Nuda, mi fecero accovacciare decine di volte. Poi mi fu ordinato di indossare altri abiti che non erano della mia misura, forse di una precedente prigioniera. Mi rasarono i capelli e mi portarono in questa cella. Sono così sola qui. So che ci sono altri prigionieri. Riesco a sentire le loro voci, ma non li vedo mai. Tutto quello che posso fare è pregare. Pregare e cantare nel mio cuore. Mai ad alta voce, solo nel mio cuore. Canto una canzone che ho scritto nella mia testa:
In questa prigione il mio cuore anela
a te, oh Padre.
Anche se la strada per la verità è
ripida e stretta,
un futuro radioso si rivelerà se
continuerò il mio cammino.
Senza fede, la calamità colpirà questa strada:
permettimi di accedere alla tua
fortezza!
Per quanti dolori e complicazioni ci possano essere,
dimmi come posso seguire le orme
del mio Dio?
Con lacrime il mio cuore anela il Padre in questa prigione.
Padre, ti prego, accetta questa figlia peccatrice!
Per favore, proteggimi nel tuo alto rifugio e dietro il tuo scudo,
accoglimi sotto le tue ali di pace.
La voce del padre che viene dal cielo
mi guidi ogni giorno alle tue
benedizioni.
È passato un anno ormai. Non so per quanto tempo sopravvivrò. Un giorno grideranno ancora: “42!”, ma io non mi muoverò più. Sarò morta, qui in questa cella. Si libereranno del mio corpo e la prossima detenuta che abiterà in questa cella sarà la “prigioniera 42” e indosserà i miei vestiti.
* * *
Non sono più la prigioniera 42. Ora mi chiamo 1.445… ora sono 1.445.
Due anni fa mi fecero uscire dalla mia cella e mi portarono in tribunale. Fu una vittoria. Le persone che vengono inviate nel Kwan-li-so (campo di lavoro per criminali accusati di reati politici o contro lo Stato) non sono mai condannate da un giudice: semplicemente scompaiono dalle celle. La maggior parte dei cristiani vanno lì. Il tribunale dunque era un buon segno.
Non c’era un avvocato a rappresentarmi. Mi trovavo davanti al giudice con le guardie dietro di me. Ma non ero sola… c’era anche mio marito. Mi guardava con gli occhi più tristi che io abbia mai visto. Aveva chiaramente pianto a lungo. Volevo dirgli così tante cose e so che anche lui voleva parlarmi, ma non ci era permesso dire una sola parola.
Il giudice gli chiese se voleva divorziare da me. Con voce rotta, lui rispose: «Sì». Quel «sì» mi frantumò il cuore. Ma doveva prendere questa decisione per il bene dei nostri figli e il suo: sarebbero stati tutti puniti se non avesse divorziato da me. Poi mi condannarono a 4 anni di detenzione nel campo di rieducazione. Ero devastata.
Un campo di rieducazione è la peggiore cosa che ti possa capitare; tuttavia la prigione può essere anche peggio. Avevo passato un anno nel centro di detenzione e per un anno la mia pelle non era stata toccata da un solo raggio di sole. Solo essere prelevata dalla prigione, essere portata fuori e sentire nuovamente il vento sfiorare il mio volto fu un’esperienza incredibile.
Quel briciolo di gioia scomparve appena arrivai al campo. Vidi delle ombre in movimento, quasi prive di forma. Mi ci volle un po’ per capire che si trattava di persone. Alcune erano piegate su se stesse, immobili, spettrali. Altre avevano perso un braccio o una gamba. Guardai subito le mie braccia e le mie gambe, sottili come fiammiferi. Non avevo un aspetto migliore degli altri detenuti.
Nel campo lavoro almeno dodici ore al giorno. A volte di più, difficile tenere il conto. Ogni giorno è solo un lungo incubo. Ma almeno non sono più sola in una cella. Un giorno ero malata e per pura grazia mi permisero di rimanere nella mia baracca. Pensavo di essere sola quando notai nell’angolo del locale una coperta che si muoveva. La osservai meglio e mi resi conto che c’era una persona là sotto. Mi avvicinai a fatica, in punta di piedi, verso la coperta e tesi l’orecchio per ascoltare. Da sotto la coperta arrivava un bisbiglio difficilmente udibile, tuttavia alcune parole sembravano familiari.
Improvvisamente mi resi conto di quello che stava succedendo: là sotto c’era una donna che pregava! Tornai al mio materasso in silenzio con il cuore in gola. Osservai quella donna per giorni. Un giorno stavamo lavorando all’aperto. Non c’era nessuno vicino, mi avvicinai a lei e le sussurrai: «Ciao, ti saluto nel nome del Signore Gesù». Sussultò, ebbe quasi un infarto. Fortunatamente, riuscii a calmarla in fretta. Formammo una chiesa segreta all’interno del campo! Quando ci incontravamo e ci sentivamo abbastanza sicure di non essere sentite, pregavamo il Padre Nostro e recitavamo il Credo Apostolico. Lei era molto più coraggiosa di me. Infatti iniziò a parlare di Cristo anche ad altre.
Ecco perché un giorno vennero a prenderla. Quando la vidi andarsene, capii che la portavano in una prigione di massima sicurezza, un Kwan-li-so. Nessuno sopravvive laggiù. Dolore su dolore. Tristezza su tristezza. Oggi sono qui nella mia baracca, ma non per molto. Dio è stato con me ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo di questa valle di morte. Ieri mi è stato annunciato che sarei stata rilasciata. Ho scontato solo due anni nel campo di rieducazione.
La prima cosa che farò quando uscirò sarà cercare mio marito e i miei figli. Ora sono molto più grandi. Non ci vediamo da così tanto tempo! Ma Dio ha vegliato su di me e io prego e credo che Lui vegli anche su di loro, ogni secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno. Ho bisogno di parlare loro di questo Dio amorevole.
1.445 è stata poi rilasciata in virtù di un decreto di grazia emesso in occasione di una festività del paese. Porte Aperte l’ha soccorsa e ha raccolto la sua testimonianza non molto tempo dopo. Tanto la località dove si trova, quanto il suo nome non verranno svelati per ragioni di sicurezza. 1.445 si è ricongiunta con la sua famiglia e non ha perduto la sua fede in Dio.
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