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«Io, nato in un gulag in Corea del Nord, non sarò mai felice»

Storia di Shin Dong-hyuk, evaso per fame dal lager comunista dopo aver fatto giustiziare la madre e il fratello. Così si campa in una civiltà finalmente depurata dai legami umani.

Leone Grotti
11/07/2012 - 12:35
Esteri
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Ripubblichiamo l’articolo apparso sul numero 22/2012 di Tempi.

«Quando mio fratello e mia mamma sono stati giustiziati, io avevo 14 anni ed ero in prima fila a guardare: lui è stato fucilato, lei impiccata. Le autorità del campo li hanno uccisi quando hanno scoperto che avevano cercato di scappare. E l’hanno scoperto perché li ho denunciati io». Shin Dong-hyuk non si è neanche sentito in colpa. Del resto stava solo seguendo il sesto comandamento del decalogo del campo 14, il gulag per prigionieri politici più duro di tutta la Corea del Nord. «Controlla i compagni e denuncia comportamenti inappropriati senza tardare. Uno deve criticare gli altri per comportamenti inappropriati e anche autocriticarsi secondo l’ideologia di classe rivoluzionaria», recita la legge. Vale per i compagni di lavori forzati e vale per la propria famiglia. Se non avesse denunciato sua madre e suo fratello Shin sarebbe stato ucciso, secondo il dettame della regola numero dieci: «La punizione per chi viola le regole del campo è la morte».

Ma Shin non l’ha fatto per paura di morire, quel gesto disumano è normale per uno che nel gulag di Kaechon, 40 chilometri a nord della capitale Pyongyang, ci è nato e vissuto fino a 23 anni. Di umanità nella vita ne ha vista ben poca Shin. «Credevo fosse giusto denunciare mia mamma. Quando vedevo la gente che veniva picchiata o uccisa, pensavo che lo meritassero perché avevano violato le regole». Nei gulag nordcoreani, racconta Shin in Escape from Camp 14, scritto da Blaine Harden, non si vive, si sopravvive. Per sopravvivere bisogna mangiare e per ricevere una razione misera di cibo bisogna lavorare. E lavorare giorno e notte, altrimenti gli altri prigionieri ti criticano, le guardie ti picchiano e non ti danno da mangiare. «Non ho mai pensato perché dovessi lavorare, non ho mai avuto il tempo per coltivare pensieri di questo genere. Noi eravamo criminali, io vivevo perché le guardie mi concedevano di vivere».

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Nei gulag la famiglia non viene abolita, è svuotata del suo significato: il sesso è ridotto ad accoppiamento, la generazione a riproduzione, l’educazione ad allevamento. Il rapporto tra genitori e figli semplicemente non esiste. Shin è nato il 19 novembre 1982 perché i suoi genitori erano prigionieri modello. Come forma di premio, «mio padre e mia madre sono stati scelti dalle guardie e chiusi in una stanza per cinque giorni». Shin può dire di avere avuto una famiglia, anche se non conserva ricordi positivi: «Non mi sono mai sentito voluto bene, neanche una volta. Chiamavo i miei genitori madre e padre perché si faceva così ma non c’era rapporto tra noi. Non sono mai stato abbracciato, mio padre non mi ha mai portato in spalla. Le madri possono solo allattare i bambini. Se i bambini piangono, li picchiano. È così che sono cresciuto: picchiato da mia madre». Ma non è colpa loro, insiste l’unica persona al mondo ad essere nata in un gulag e poi scappata: «Non possono fare altrimenti perché le madri al lavoro vengono ingiuriate e pestate, così quando tornano a casa dai figli li picchiano per lo stress accumulato».

«Ognuno per sé, tutti possono essere delatori»
Le guardie nei gulag impediscono i rapporti umani. A Shin fin da piccolo viene ordinato di controllare la madre e viceversa. Ma non c’è neanche bisogno di tanti insegnamenti teorici: «La società è costruita perché tutti siano uguali e ognuno viva per sé. Tutti gli altri infatti possono essere dei delatori». Come lui ha fatto con i suoi familiari. Le guardie del campo, per “premiarlo”, l’hanno torturato per sette mesi (disegni nell’articolo realizzati dallo stesso Shin, fonte: Nknet), appendendolo mani e gambe sopra un braciere di fiamme vive, infilandogli un uncino nel corpo, pestandolo ripetutamente e mozzandogli il dito medio della mano destra.
In una società dove l’unico scopo è sopravvivere la cosa più importante è il cibo. «Non pensavo ad altro, la cosa più difficile era sfamarsi e questo è il motivo per cui sono scappato: avevo fame». Una condizione con cui aveva convissuto tutta la vita ma che gli diventa insopportabile quando nel 2004 viene affiancato a un signore di nome Park, un novizio. Park lo tratta bene, spesso gli dà qualcosa da mangiare e nonostante sia proibito parlare della propria vita al di fuori del campo gli racconta di come viveva prima di essere internato. Shin apprende così, a 22 anni, dell’esistenza di Pyongyang, la capitale del suo paese, e di tante altre cose. «Ma quello che mi importava di più era il cibo e lui mi parlava della carne che mangiava. Io gli chiedevo ogni giorno di raccontarmelo e dopo sei mesi la vita era diventata insopportabile». Per questo, il 2 gennaio del 2005, approfittando della distrazione delle guardie, insieme a Park striscia in mezzo al filo spinato attraversato dall’alta tensione. I segni della pelle bruciata e scorticata a distanza di otto anni sono ancora sulle sue gambe. Shin passa per primo e scappa senza voltarsi. Park non ci riesce. Quello che lo sconvolge di più del «mondo libero» non sono le auto, la tecnologia o gli spazi aperti: «La cosa più scioccante era la gente che si muoveva come voleva, che vestiva abiti di mille colori diversi e mangiava liberamente».

Shin oggi ha 30 anni e da quando è riuscito a raggiungere la Corea del Sud attraverso la Cina testimonia l’orrore di uno dei pochi regimi comunisti rimasti al mondo. Ha scritto un libro per far conoscere la sua storia ma non ne parla volentieri. Anche se può mangiare e muoversi come vuole, è triste: «Onestamente, non sono felice. Sono scappato perché ero affamato ma adesso che non ho più fame, soffro ancora. Finché avrò memoria penso che non potrò essere felice». Dopo aver visto come vivevano le famiglie a Seul, «mi sono sentito in colpa per aver denunciato mia madre e mio fratello. Non ho mai dato importanza ai rapporti ma se c’è una cosa che mi manca oggi è mio padre. Se potessi rivederlo, gli chiederei scusa, lo prenderei per mano e camminerei insieme a lui per il quartiere di Myeong-dong».

@LeoneGrotti

Tags: corea del nordgulag nordcoreanishin dong-hyuk
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