«Carneade! Chi era costui?»: così scriveva, quasi con cipiglio da contrappasso dantesco, Alessandro Manzoni, nel suo celebre passo, per sintetizzare l’identità di chi identità non aveva, mutando sempre il proprio pensiero come appunto il celebre filosofo di Cirene del II secolo a.C. Una simile descrizione potrebbe adeguarsi alla perfezione all’ordinanza n. 207 della Corte Costituzionale, pubblicata lo scorso 16 novembre 2018, sulla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale che punisce l’assistenza al suicidio.
La suddetta pronuncia, pur complessa ed inesauribile in così breve spazio d’analisi, è comunque passibile di una breve riflessione in considerazione di ciò che enuncia, specialmente in riferimento alle palesi contraddizioni – almeno tre – in essa contenute.
IPOCRISIA SUL DIRITTO ALLA VITA
In primo luogo: la Corte costituzionale per un verso precisa che il diritto alla vita è il presupposto di tutti gli altri diritti e quindi il primo in ordine logico e valoriale, ma poi ritiene che il divieto assoluto «di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive».
Non occorre essere togati eminenti per comprendere che ci si deve mettere d’accordo: se il diritto alla vita è il primo e il più importante di tutti, quello non meno importante di autodeterminazione è comunque secondo e a quello subordinato e da quello limitato; se, invece, il diritto all’autodeterminazione deve essere assoluto e senza limiti è inutile affermare e pensare il diritto alla vita come primo e superiore.
UN DIVIETO CHE NON VIETA?
In secondo luogo: per un verso la Corte Costituzionale ritiene che «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio», tanto che «l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione», ma per altro verso ritiene che, nel dare tempo al legislatore in vista dell’adozione di una nuova disciplina in merito, si lascia in vita «la normativa non conforme a Costituzione».
Senza dubbio la Corte ha ritenuto legittimo il divieto di aiuto al suicidio, ma ha altresì ritenuto che tale divieto non può essere assoluto senza violare la Costituzione. Anche in questo caso delle due l’una: o il divieto è tale e quindi assoluto proprio perché il diritto alla vita è il diritto supremo da cui tutti gli altri discendono, oppure un divieto relativo dimostra la relatività del bene che presume di proteggere e quindi anche la sua stessa strutturale inefficienza nel farlo, specialmente in considerazione del fatto che si tratta del diritto alla vita assunto, per di più, come primo fra tutti gli altri diritti.
LE PRONUNCE DIMENTICATE
In terzo luogo: la Corte Costituzionale, per giustificare l’intervento del legislatore italiano esortato ad attivarsi in tal senso, chiama in causa l’esperienza delle corti supreme straniere, specialmente quella canadese e quella inglese, che sulla stessa via argomentativa si sono già espresse, ma non richiama, stranamente, la recente pronuncia della New York High Court, nel caso Myers v. Schneiderman dello scorso 7 settembre 2017, secondo la quale non esiste un diritto costituzionale al suicidio assistito così che il diritto di scegliere i trattamenti sanitari o di rifiutare quelli di sostegno vitale non include il diritto ad essere aiutati al suicidio, né quella della Supreme Court of New Mexico, nel caso Morris v. Brandenburg dello scorso 30 giugno 2016, in cui si chiarisce senza mezze misure che non esiste un diritto di morire costituzionalmente tutelabile.
Ciò nonostante, si consideri, inoltre, la peculiare circostanza per cui la Corte Costituzionale italiana, in un passaggio dell’ordinanza, mostra sensibilità e preoccupazione per il caso in cui «in assenza di una specifica disciplina della materia, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti».
La Corte, infatti, sembra trascurare che è proprio ciò che sta accadendo nei Paesi in cui la morte assistita è stata già legalizzata, Paesi nei quali si stanno ampiamente e tragicamente travalicando gli argini previsti dalla legge in direzione di abusi e violazioni gravi proprio a danno di chi non può autodeterminarsi. Già l’anno scorso, infatti, è stato pubblicato un autorevole studio che denuncia i misfatti che si stanno compiendo in Olanda.
PERCHE’ A PAGAMENTO NO?
Anche l’idea avanzata dalla Corte di condannare – almeno per ora e almeno moralmente – l’eventuale sfruttamento economico della morte assistita pare quanto mai in stato di obsolescenza, specialmente in una prospettiva di intenzionale relativizzazione (o meglio, abbattimento) del divieto di assistenza alla morte.
Infatti, come già da tempo ha teorizzato il bioeticista Roland Ripke, dell’Università di Tubinga, tutti coloro che sostengono la legalizzazione del suicidio assistito dovrebbero altresì sostenere anche la legittimità del suo eventuale sfruttamento economico o rivedere per coerenza l’interezza della propria posizione, in quanto solo la commerciabilità del suicidio assistito garantirebbe una serie di vantaggi fortemente auspicabili, come per esempio il fatto – inspiegabilmente temuto dalla Corte Costituzionale a questo punto soltanto per una forma illogica di “prudentismo manierista” – che non dovrebbe più essere necessariamente il personale medico-sanitario a somministrare la morte, ma chiunque decidesse di entrare nel mercato – eventualmente legalizzato – della morte assistita.
Alla luce di tutto ciò, appare evidente, dunque, che la decisione della Corte Costituzionale, sebbene “interlocutoria” nell’ambito di un procedimento giurisdizionale sospeso e ancora in corso di definizione, appare gravemente inficiata da distorsioni logiche, etiche e giuridiche che ne pregiudicano la reale affidabilità, specialmente se prese come criterio guida da assumersi da parte del legislatore sollecitato ad agire in tale direzione.
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