È sul tavolo del governo e potrebbe essere un contributo importante alla “fase tre” dell’esecutivo Monti in tema di spending review: si tratta della proposta di Francesco Giavazzi, docente di economia all’Università Bocconi di Milano, editorialista del Corriere della Sera e super consulente dei tecnici che vuole eliminare gli incentivi pubblici alle imprese che non creano investimenti aggiuntivi, usando in altro modo i 10 miliardi risparmiati. «La logica di eliminare l’improduttività degli incentivi pubblici è giusta perché colpisce le rendite» dichiara a tempi.it Paolo Preti (nella foto), docente presso l’università Bocconi di organizzazione per le Piccole e medie imprese. «Anche se togliere incentivi alle imprese che sono abituate ad averli è rischioso. I tagli possono creare difficoltà a chi ha già problemi».
Quali incentivi è bene che vengano tagliati?
L’attenzione di Giavazzi si focalizza sugli incentivi all’industria nel Sud. Certo, operare al Sud è interesse dello Stato che vuole valorizzare l’industrializzazione, anche all’interno di un territorio nel quale c’è una forte presenza di criminalità organizzata. Dando dei soldi, però, non si ha l’automatica certezza che un’industria sarà operativa e capace di stare sui mercati: bisogna premiare l’imprenditore capace, indipendentemente dal territorio in cui opera, e non dire all’impresa che se apre al Sud riceve un incentivo. Altrimenti si rischia che non produca nulla.
Non è un discorso da leghisti?
I tagli agli incentivi improduttivi valgono per tutto il territorio: ma è innegabile che in questi anni si sono buttati soldi pubblici, favorendo imprese, per il solo fatto che aprissero al Sud, senza che producessero l’onda lunga dell’occupazione.
Quali sono gli incentivi produttivi?
Se io incentivo ricerca e sviluppo, non assicuro direttamente produzione, però se va a buon fine avrò come risultati nuovi brevetti e nuovi materiali che possono avviare un circolo industriale virtuoso.
Quello proposto da Giavazzi è per il presidente di Confindustria Squinzi un passo avanti, per altri un provvedimento che non darà risultati.
Il vero risultato non è un “più” diretto ai risultati economici, ma un “meno” alla spesa pubblica. Anche se bisogna augurarcelo, non sarà tanto un miglioramento dei risultati economici delle imprese in funzione dei sussidi pubblici, ma una diminuzione immediata della spesa pubblica, che spesso è stata improduttiva.
Potrebbe ridursi il cuneo fiscale sul lavoro?
Dipende. Posto che questa proposta venga attivata, bisognerà vedere se quei dieci miliardi di risparmio, sui trentasei che in generale lo Stato spende, andranno a coprire il mancato gettito dei due punti in più dell’Iva, previsto per luglio 2013: allora ben più della metà sarebbero già occupati. Se, invece, come più logico, tutta la somma sarà impiegata a ridurre il cuneo fiscale, allora sarà legittimo mettere in conto quel punto e mezzo di Pil in più.
Dieci miliardi di tagli su trentasei: è il massimo che si poteva proporre?
Mah, l’impressione è che dalla cifra che rimane si potesse togliere ancora qualcosa. Capisco, però, il bisogno di procedere per gradi. Dipende da come funzionerà questo primo approccio.
Molti dicono: ma come, si tolgono soldi alle imprese?
Rispondo: se un’azienda va in banca a fare un mutuo e investe i soldi ricevuti per comprare una casa, che magari insieme ad altre bonifica un quartiere, è un conto. Se invece ricevo una somma e poi non la reinvesto, ma la metto sotto il materasso, come fanno certe banche con i soldi dell’Europa, è un altro perché quella somma è improduttiva. È l’esempio della paghetta: si rischia di passare la vita vivendo della mancia dei genitori.