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Per resistere alla cancel culture serve coraggio. Il manifesto di Bari Weiss

La giornalista che lasciò il New York Times perché illiberale guida con una newsletter la rivolta contro l'ideologia woke che silenzia i dissidenti e non perdona chi sbaglia. «Iniziamo a dire "No"»

Piero Vietti
22/10/2021 - 6:30
Cultura
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Una statua di Cristoforo Colombo vandalizzata a Londra in occasione dell’anniversario della scoperta dell’America (foto Ansa)

Un anno fa ha lasciato il suo posto al New York Times perché, diceva, il suo giornale era diventato «ostile alla libertà di espressione e di indagine». Bari Weiss ha detto quello che molti – soprattutto nella sedicente patria della libertà, gli Stati Uniti – pensano ma non hanno il coraggio di dire.

Il giornale del 21° secolo

Ha denunciato il pensiero illiberale progressista che in nome del wokeness censura, attacca e silenzia qualunque opinione non allineata, un’ideologia che ha infiltrato università, giornali, Hollywood e che è talmente egemone da non avere bisogno di polizia del pensiero e gulag, fa leva sull’autocensura che chiunque non abbia le idee “corrette” su genere, razza e orientamento sessuale applica a se stesso, sia egli professore, studente, giornalista o autore. Se ne è andata dal più importante giornale del mondo, lei lesbica e liberal, e dalle parti dei fan del woke si pensava che sarebbe scomparsa, cancellata, ridotta a macchietta.

Un anno dopo Bari Weiss è viva e vegeta, e dall’alto dei sui oltre 100.000 iscritti al suo Substack, Common Sense, gran parte dei quali a pagamento, agita idee, disturba, dà spazio ai silenziati e annuncia che il suo «è il giornale del 21° secolo, la pagina degli editoriali che vorrei leggere». In una combattiva intervista nel podcast di Brian Stelter sulla Cnn, qualche giorno fa Weiss ha detto di avere «guadagnato molti più soldi di quanto avessi mai pensato fosse possibile nel giornalismo, ho assunto quattro persone, a breve una quinta, sto reinvestendo tutto in questo progetto perché credo davvero, davvero, davvero in questo modello».

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Il woke porta alla cancel culture

Come ha scritto fin dall’inizio del suo Common Sense, dove raccoglie le storie di chi ha subito censure, licenziamenti e boicottaggi a causa del proprio non allineamento con il mainstream woke, oggi si viene condannati per i «reati di pensiero». Da qui l’autocensura, innescata da piccoli ma rumorosi gruppi e leader potenti ma codardi. «Sappiamo entrambi», ha detto a Stelter, «che toccare certi argomenti – che sono sempre di più – considerati intoccabili dalle istituzioni tradizionali e da sempre più tech company porterà danni alla reputazione, il rischio di perdere il lavoro, persino la demonizzazione dei propri figli. Ecco perché scatta questa sorta di autocensura interna».

Come denunciato anche da Peter Boghossian su Tempi, Weiss spiega che la trasformazione è iniziata dalle più salde istituzioni americane, dai giornali, dall’accademia, dalle case editrici e dal mondo del cinema: «Stanno restringendo in maniera sempre più radicale il campo di quello che è considerato accettabile dire», senza che si sia bisogno di un divieto esplicito, basta un “esempio” da seguire ed è fatta.

Qualche giorno fa su Commentary Bari Weiss ha scritto un lungo manifesto contro «l’ortodossia woke» (avviso a chi pensa che sia un problema soltanto americano o anglosassone: la cancel culture arriva anche da noi, sta già arrivando). In quel saggio Weiss va «oltre gli hashtag e i luoghi comuni», e riassume magistralmente origini e conseguenze del pensiero progressista dominante, che nasce per fare giustizia e dichiarare guerra «all’arretratezza e alla tirannia». E in guerra vale tutto, a partire dalla sospensione delle regole, regole che impediscono un cambiamento reale, essendo state imposte da chi va combattuto, sono «gli strumenti del padrone» quindi vanno ripudiati e sostituiti.

Se non fai il tweet giusto ti rovino

«E così facendo, la persuasione – lo scopo della discussione – viene sostituita con la pubblica vergogna. La complessità morale è sostituita dalla certezza morale. I fatti vengono sostituiti con i sentimenti. Le idee vengono sostituite con l’identità. Il perdono è sostituito dalla punizione. Il dibattito viene sostituito con l’esclusione dalle piattaforme social. La diversità è sostituita dall’omogeneità di pensiero. L’inclusione con esclusione. In questa ideologia, la parola è violenza. Ma la violenza, se praticata dalle persone giuste per perseguire una giusta causa, non è affatto violenza. In questa ideologia, il bullismo è sbagliato, a meno che tu non stia facendo il prepotente con le persone giuste, nel qual caso è molto, molto buono. In questa ideologia, l’educazione non consiste nell’insegnare alle persone come pensare, ma nel rieducarle su cosa pensare. In questa ideologia, il bisogno di sentirsi al sicuro vince sul bisogno di parlare sinceramente».

«In questa ideologia, se non fai il ​​tweet giusto o non condividi lo slogan giusto, tutta la tua vita può essere rovinata. Chiedete a Tiffany Riley, una preside di una scuola del Vermont che è stata licenziata perché ha detto di sostenere le vite dei neri ma non l’organizzazione Black Lives Matter. In questa ideologia, il passato non può essere compreso nei suoi termini, ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. È per questo che le statue di Grant e Washington vengono abbattute. Ed è per questo che William Peris, un docente dell’UCLA e un veterano dell’Air Force, è stato indagato per aver letto ad alta voce in classe la “Lettera dal carcere di Birmingham” di Martin Luther King».

Tu non sei tu

«In questa ideologia, le intenzioni non contano. Ecco perché Emmanuel Cafferty, un operaio ispanico della San Diego Gas and Electric, è stato licenziato per aver fatto quello che qualcuno ha detto che pensava fosse un gesto della mano da suprematista bianco, quando in realtà stava facendo schioccare le nocche fuori dal finestrino della macchina». Che cosa è questo, se non il totalitarismo morbido di cui parla Rod Dreher? Portiamo tutti sulle spalle le colpe dei nostri padri, «tu non sei tu. Sei solo un semplice avatar della tua razza o della tua religione o della tua classe».

Anche «il razzismo è stato ridefinito. Non si tratta più di discriminazione basata sul colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è qualsiasi sistema che permetta risultati diversi tra i gruppi razziali. Se c’è disparità c’è razzismo. Secondo questa nuova visione totalizzante, siamo tutti o razzisti o antirazzisti. Per essere una brava persona e non una cattiva persona, devi essere un “antirazzista”. Non c’è neutralità. Non esiste una cosa come “non razzista”». Quella che chiamiamo cancel cuture «è il vero sistema di giustizia di questa rivoluzione. E l’obiettivo di chi cancella non è solo punire la persona da cancellare. L’obiettivo è mandare un messaggio a tutti gli altri: se esci dalla fila sarai il prossimo».

Una crisi di significato

Lo ha raccontato anche Tempi, secondo un sondaggio del Cato Institute il 62 per cento degli americani ha paura a esporre liberamente il proprio pensiero. Perché questa ideologia ha preso piede così facilmente? È in fondo una conseguenza della crisi del liberalismo (anche se Weiss non la dice così, convinta che il liberalismo sia solo stato mal interpretato e che resti la cura di questa crisi): «Tutto questo è avvenuto sullo sfondo di alcuni grandi cambiamenti nella vita americana: la lacerazione del tessuto sociale; la perdita della religione e il declino delle organizzazioni civiche; la crisi degli oppioidi; il crollo delle industrie americane; l’ascesa di Big Tech; le crisi finanziarie; un discorso pubblico tossico; il debito studentesco sempre più schiacciante. Un’epidemia di solitudine. Una crisi di significato. Una pandemia di sfiducia».

È il declino del sogno americano, in cui le disuguaglianze hanno mostrato il fallimento della meritocrazia liberale, fino a che ci si è convinti che fossero «truccate a favore di alcune persone e contro altre». E «se la codardia è la cosa che ha permesso tutto ciò, la forza che ferma questa rivoluzione culturale si può riassumere anche in una parola: coraggio».

Il coraggio di dire “No”

È ancora a Brian Stelter che Bari Weiss ha spiegato cosa intende: «Le istituzioni sono fatte di persone. E quindi se un’istituzione – il cui compito è sostenere, ad esempio, il liberalismo in senso lato – decide di non farlo più, perché ci stupiamo se quell’istituzione diventa illiberale?». Tutto questo cambierebbe «se i leader di queste istituzioni si alzassero e dicessero “No”», o in una redazione qualcuno si alzasse e dicesse: «“Se pensi davvero che un editoriale sia violenza, forse il giornalismo non è la carriera giusta per te”. Fino a quando non lo vedremo accadere, penso che continueremo a vedere molte di queste istituzioni eliminare le persone che non si allineano con la nuova ortodossia woke».

Eppure a casa, con i nostri famigliari e amici, diciamo ciò che pensiamo, ma «c’è un abisso tra ciò che le persone sono disposte a dire al tavolo della propria cucina e poi ciò che sono disposte a dire su Twitter. Spesso sono letteralmente due persone diversi. Quello che voglio dire è “No, facciamo quelle conversazioni private in pubblico”. L’unico modo in cui la cultura cambia è se abbiamo il coraggio di farlo e di mostrare agli altri che si può fare e si può non solo sopravvivere, ma prosperare. Non mi sono mai sentita più libera o più entusiasta del mio lavoro di adesso».

Tags: antirazzismobari weisscancel cultureIdeologia GenderPoliticamente CorrettoStati Unitiwoke
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