Aspettando la condanna del figlio di La Russa tutti hanno già condannato Facci
Stai a vedere che ora voler morto Filippo Facci è prova certa di antifascismo (e antisessismo, e lotta alla cultura dello stupro e giusta giustizia). E che dargli ragione su quanto ha scritto su Libero sul caso di Leonardo Apache La Russa, cioè che l’uso delle droghe renda maledettamente equivoca e dunque difficile da giudicare ogni presunta violenza sessuale, è diventato concorso in vittimizzazione secondaria, meloneria indegna di stampa o tv pubblica.
Facci era Facci ben prima che i colleghi dessero ragione ai suoi libri e articoli, facendo cioè del giornalismo un’operazione di sputtanamento per levargli un annunciato programma su Rai2: “Filippo Facci denunciato per stalking dall’ex moglie: riceve un ammonimento del questore”, è diventata ieri l’apertura del sito di Repubblica e Stampa, roba da far rimpiangere gli articoli del mattinale cartaceo (Facci indegno della Rai perché ha violato le regole del lockdown, Facci sessista e pietra d’inciampo dei sovranisti che vogliono virare a destra la narrazione della Rai).
Facci e l’articolo che non ha letto (o capito) nessuno
Facci è «niente di nuovo» (ha detto bene Emma Bonino), citofonare ai questorini social che da ore esprimono ripulsa per il fascista meloniano (la nemesi più imposta al radicale libertario) e quello che in passato ha scritto su Murgia, Greta, Lucarelli, l’islam. Facci cocainomane, picchiatore, fumatore. Facci la merda umana. Ma qualcosa di nuovo l’ha detto, nonostante la frase incriminata da Pd, Azione, Più Europa, M5s, dall’Odg, Fnsi, Usigrai, GiULiA e soprattutto da Sandro Ruotolo. Il responsabile informazione del partito di Elly Schlein, ex volto dei programmi di Michele Santoro, ha avuto la faccia tosta di chiedere al comitato Rai di intervenire sul «sessismo di Facci» espresso in un articolo pubblicato su Libero perché «può la tv pubblica essere affidata a chi fa vittimizzazione secondaria? Il servizio pubblico è di tutti ma non può esserlo dei sessisti, dei razzisti e del pensiero fascista».
La frase che varrebbe a Facci i quattro capi di imputazione di Ruotolo e l’epurazione dalla Rai l’hanno letta tutti («Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa»), il resto dell’articolo – nel migliore dei casi, altrimenti abbiamo un serio problema di comprensione dei testi – no. Perché il resto del pezzo non serve a fare del caso Facci un caso Rai e un caso politico. L’articolo lo trovate qui, «sostanzialmente sostiene come sia il figlio del presidente del Senato sia la ragazza che lo ha denunciato potrebbero nella loro divergente versione essere convinti di “avere ragione”, e questi casi di violenza sessuale sono ormai difficili da giudicare, sia perché l’uso delle droghe rende “equivoca” ogni vicenda, sia perché per una generazione “ultralight e svagata” il concetto di reato è “lontano dal concetto gravoso”» (è la sintesi onesta di Paola Di Caro sul Corriere).
Difendono la ragazza ma pubblicano le chat
È indecente e gratuito il “gioco di parole” di Facci sulla ragazza che ha denunciato un coetaneo per stupro? Sì. Brutale sottolineare che «ogni racconto di lei sarà reso equivoco dalla polvere presa prima di entrare in discoteca, prima di chiedere all’amica “sono stata drogata?” anche se lo era già di suo»? Anche. Ma è la verità, anche se non depone a favore di nessun consumatore di droga. Anche se a scriverla è un anomalo cronista di giudiziaria garantista dai tempi di Mani Pulite, che da trent’anni, ciclicamente, diventa solo il suo casellario giudiziario. Anche se l’avvocato della ragazza dice che la droga non è un tema («ricordo che nel 2013 l’Italia ha firmato la Convenzione di Istanbul con la quale gli Stati firmatari si prodigavano a rimuovere le circostanze che portano alla vittimizzazione secondaria delle donne», ha detto a Repubblica).
Ma come si fa a difendere una 22enne da una frase di Facci e non provare alcuna remora nell’elencare l’antidepressivo, il calmante e il sonnifero di cui faceva uso tutti i giorni e le chat con l’amica su tutte le strisce di coca fatte, quella e altre sere, i baci, le urla, i “facciamo una botta”, gli «Amo, ti ha per forza drogata», «non può essere c (cocaina, ndr). Non ti fa quell’effetto. Non era mai successo tutte le altre serate», come si fa a lasciarla inchiodata ai suoi messaggi sconnessi all’amica inviati a mezzogiorno da un letto di cui non ricorda nulla, in una stanza in cui si affaccia il padre del tizio accanto, e parlare di violenza sessuale come se la cornice non dicesse nulla sulla “normalità” di quella che Facci ha chiamato «generazione sconosciuta e ultralight, svagata, lontana dai nostri tabù e dal gravoso concetto di “reato”» e la difficoltà di stabilire a mezzo legge cosa è successo?
Dal giornalista di Libero alla ministra Roccella
Si fa, e non è un gioco di parole, perché subito dopo Facci a «mettere a repentaglio la denuncia di stupro di una ragazza» è per Marta Bonafoni, coordinatrice della segreteria della Schlein (seguita a ruota da colleghi e giornalisti) niente meno che la ministra della Famiglia Eugenia Roccella. «È questa la famiglia naturale che dite di voler preservare?». Roccella era a Polignano a Mare a presentare il suo libro Una famiglia radicale quando, incalzata dalle domande del giornalista sul “caso Santanchè“, ha affermato da ex radicale di conservare quale elemento di continuità del suo passato il garantismo («Credo, da garantista, che non ci sia certamente bisogno di dimettersi»), ricordando a quanti politici innocenti e dimessi non è stata restituita la reputazione al contrario dei magistrati che hanno fatto carriera accusando Enzo Tortora e a cui nessuno ha chiesto il conto degli errori commessi. E su La Russa ha tagliato corto: «È un padre», «è stato colui che ha proposto una manifestazione di soli uomini contro la violenza sulle donne». Tanto è bastato per riempire le prime pagine di accuse alla ministra di “paragone irriverente” e “difesa dei La Russa”.
Gli stessi La Russa dipinti come i Casamonica da Paolo Berizzi su Repubblica, che nel club dove Leonardo Apache ha incontrato la presunta “vittima” vengono trattati «come dei pascià. Perché sono loro. Perché portano gente. Perché la gente che portano, spende. Forse spendono anche loro…». La cornice non serve, tranne quando serve a girare attorno a un problema. O chiamare il problema Filippo Facci: «Non riscriverei quella frase, perché conta un solo fatto: che non ha portato niente di buono e che ha fatto malintendere un intero articolo. La professionalità innanzitutto, l’orgoglio personale poi».
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!