Antonio Gozzi: «Ilva? Una vicenda di ordinaria follia italiana»
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Oggi si torna a parlare di Ilva. Dopo che l’Anac, l’authority anticorruzione di Raffaele Cantone interpellata dal dicastero di Luigi Di Maio, ha confermato la presenza di criticità nell’assegnazione dell’acciaieria al colosso franco-indiano Arcelor Mittal, il ministro dello Sviluppo economico ha aperto un fronte con il Mise, annunciando l’avvio di un’indagine interna al ministero. Ilva continua dunque la sua «storia di ordinaria follia», come l’aveva definita qualche giorno fa Antonio Gozzi intervistato da Leone Grotti per il numero di Tempi di luglio: «Se siamo arrivati fin qui è per la propaganda, la mancanza di informazione e di conoscenza siderurgica e chi più ne ha, più ne metta». Ecco cosa ci ha detto il presidente di Federacciai sul caso Ilva, ma anche sui dazi di Trump, la flat tax, il programma di governo e l’Unione europea.
Articolo tratto dal numero di Tempi di luglio – Antonio Gozzi ha tante vite. L’imprenditore di 64 anni è innanzitutto presidente del Gruppo Duferco, colosso siderurgico fondato nel 1979, con 2.200 dipendenti sparsi tra le 110 sedi in venti paesi del mondo, che ha diversificato le sue attività in settori che vanno dall’energia all’immobiliare al trasporto marittimo di merci. Il manager è anche docente della facoltà di Economia all’università di Genova e dal 2012 si trova alla guida di Federacciai, la federazione delle imprese siderurgiche italiane. Negli anni Ottanta, però, non aveva ancora cominciato a maneggiare coils e lamiere, preferendo la politica all’acciaio. Con un padre liberale e una madre socialista, non poteva che appassionarsi alla cosa pubblica. Ancora 16enne si iscrive alla federazione giovanile socialista, formandosi nel solco della tradizione lib-lab e seguendo l’esempio intellettuale e politico di pensatori come Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli. Dopo essere diventato in Liguria segretario regionale del Partito socialista italiano, molla tutto nel 1994 dopo Tangentopoli, quando fare politica per lui significava «prendermi cura delle famiglie di chi era stato incarcerato».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Professore, presidente, politico, imprenditore. Ma tra i carrugi di Chiavari, dove è nato nel 1954, Gozzi è semplicemente Tonino e la familiarità del nomignolo è direttamente proporzionale alla stima che la gente del Comune ligure nutre per lui. Non solo o non tanto per l’occhio di riguardo che Gozzi ha da sempre per Chiavari, ma anche perché ha risollevato una delle istituzioni cittadine: non la Madonna dell’Orto, ovviamente, né il caffè Defilla, l’osteria Luchin o la Società Economica. Ma la Virtus Entella, club con oltre un secolo di storia, che dopo aver militato per anni nelle categorie più infime del calcio italiano, è stato rilevato da Gozzi nel 2007 e trascinato per le secche del dilettantismo su su fino a conquistare la serie B nel 2014, anno del centenario. Non c’è da stupirsi, dunque, se quando il 17 marzo 2015 il manager è stato arrestato a Bruxelles per una presunta corruzione legata a un investimento in Congo, la città ligure è insorta e quando due giorni dopo l’hanno rilasciato, la reazione è stata unanime: «In Belgio hanno preso un granchio bello grosso. Tonino è un punto di riferimento per tutti e sabato sarà qui, allo stadio, in tempo per la partita».
Quella per il calcio, proprio come per l’impresa, è una passione che nasce in famiglia. Gozzi ricorda quando «mio papà mi portava la domenica pomeriggio allo stadio a sei anni a vedere l’Entella e per me era un sogno: tifavo la mia squadra del cuore e potevo stare un po’ con lui, che vedevo pochissimo». Di generazione in generazione, i biancocelesti hanno cementato anche i rapporti tra il professore e il figlio, «che era un calciatore e io, oltre che in tribuna, lo accompagnavo in luoghi sperduti della Liguria a giocare». L’imprenditore non ha più scordato che quella calcistica sa essere una lega più forte dell’acciaio ed è per questo che «ogni anno l’almanacco dell’Entella lo dedichiamo a tutti i papà e a tutti i bambini di Chiavari». È proprio il piccolo comune di 28 mila abitanti l’epicentro di una figura così poliedrica come Gozzi e poiché insieme al mare e all’Entella gli altri tratti distintivi dell’identità chiavarese sono l’olio e un bicchiere di Vermentino, nel solco di una tradizione che vuole i liguri marinai e agricoltori, il manager gestisce anche l’azienda agricola San Nicola.
Il 2018 è stato un anno pieno di sfide e difficoltà. Non tanto perché l’Entella è retrocessa in Lega Pro («ci rialzeremo subito»), ma perché un’autentica tempesta si è abbattuta sul mondo della siderurgia europea. Come se non bastasse il balletto del nuovo governo su che cosa fare dell’Ilva e dello stabilimento di Taranto, il più importante d’Europa, ci si è messo pure Donald Trump a complicare le cose, imponendo dall’1 giugno dazi del 25 per cento sull’acciaio e del 10 sull’alluminio. L’Unione Europea ha varato ritorsioni su prodotti americani per 2,8 miliardi di euro «e questo è esattamente quello che non doveva fare», dichiara Gozzi, che a settembre dopo sei anni lascerà la guida di Federacciai e che ha accettato di tracciare con Tempi un bilancio, senza mandarle a dire sui temi più attuali della complessa estate italiana.
Professore, quanto ci costeranno i dazi di Trump sull’acciaio?
L’Europa nel 2017 ha esportato negli Usa 5,5 milioni di tonnellate di acciaio. L’Italia 500 mila tonnellate, per un valore che supera i 400 milioni di dollari. Non tantissimo, ma neanche pochissimo. Per fortuna la struttura dei prezzi interni americani al momento è talmente alta che possiamo reggere ai dazi. Un coils a caldo che in Europa si vende a 600 dollari, negli Usa supera i 950 dollari e potrebbe raggiungere i mille. Il nostro acciaio dunque, anche dopo l’applicazione dei dazi, resta più conveniente.
Quindi non corriamo pericoli.
Purtroppo non è così. Per quanto, infatti, la struttura interna dei prezzi americani manterrà questi livelli? E soprattutto, dove ci porterà la scellerata decisione dell’Unione Europea di andare alla guerra in campo aperto?
Si riferisce alle ritorsioni applicate dall’Ue su prodotti come Levi’s, Harley Davidson e Bourbon?
Esatto. Noi eravamo contrari a ritorsioni commerciali, dovevamo tenere i nervi saldi. Le esportazioni della manifattura italiana valgono 400 miliardi di euro l’anno e la trasformazione del metallo è magna pars. E se ora gli americani, per rispondere, colpiscono con dazi pesanti le auto tedesche?
Ci rimette la Germania?
Sbagliato, ci rimettiamo noi, perché nelle auto tedesche c’è un 60 per cento di subfornitura meccanica italiana.
L’Ue ha sbagliato?
Sì. Anche nei momenti più difficili non va mai perso il rapporto con gli Usa perché sono il nostro alleato storico. Anche quando gli americani fanno errori, bisogna ragionare e negoziare. Nell’ambito del commercio internazionale l’Ue non può continuare ad agire in modo ideologico. Dobbiamo essere realistici e pragmatici. Lo fa la Cina, perché non possiamo farlo noi?
Ci vuole realismo anche per risolvere il problema dell’Ilva? Le sembra che il nuovo governo stia andando in questa direzione?
Il contratto di governo è ambiguo sul tema: c’è tutto e il contrario di tutto. Federacciai ha una discreta esperienza e speriamo che il ministro Di Maio ci ascolti.
Che cosa gli direbbe?
Che l’Ilva di Taranto è il più grande impianto siderurgico d’Europa, una ricchezza nazionale non solo per i 16-17 mila dipendenti che ruotano attorno in un modo o nell’altro allo stabilimento, ma per tutta la nostra economia. L’Ilva vale l’1 per cento del Pil nazionale e i suoi clienti sono parte integrante del tessuto industriale del Nord, perché la trasformazione è tutta qui.
E se l’Ilva chiudesse?
Sarebbe un disastro per la filiera della trasformazione del metallo e faremmo la fortuna di tutti gli altri paesi europei e dell’oligopolio siderurgico in generale.
Perché?
In Europa si produce troppo acciaio. Se l’Ilva chiudesse, svanirebbero in un colpo solo 10 milioni di tonnellate di acciaio e tutti i costi sociali di questo stravolgimento dovrebbero pagarli solo i contribuenti italiani. I nostri partner europei stapperebbero bottiglie di champagne.
La soluzione migliore, dunque, per salvare il lavoro dei dipendenti, l’economia italiana e le esigenze ambientali del territorio è dare il via libera definitivo all’acquisto dell’Ilva da parte di ArcelorMittal?
L’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) approvata dal governo che Mittal dovrà applicare è la più ambiziosa e impegnativa d’Europa. Se ci sono altre idee, vediamole in maniera professionale. Non si può parlare di decarbonizzazione senza sapere cos’è. Non si può parlare di forni elettrici senza sapere che per farli funzionare servono 10 milioni di tonnellate di rottame, quando l’Italia è già a corto di sette milioni di tonnellate l’anno. Dove lo andiamo a prendere?
La vicenda dell’Ilva è cominciata nel 2012, lei era da poco presidente di Federacciai. Qual è la sua visione complessiva di questa storia infinita?
È una vicenda di ordinaria follia italiana. L’esproprio senza indennizzo dell’azienda alla famiglia Riva rimarrà per sempre una macchia per tutto il nostro paese. Per quanto riguarda i problemi ambientali, voglio ricordare che negli ultimi 45 anni l’Ilva è stata gestita dai Riva per 15 e dallo Stato italiano per 30. Le responsabilità andrebbero dunque ripartite. Inoltre nel 2014, quando l’azienda è stata commissariata dallo Stato, i Riva lasciavano un patrimonio netto di quattro miliardi. Questo patrimonio è stato disintegrato e lo Stato ci ha rimesso un altro miliardo: quindi in cinque anni i commissari hanno generato perdite per cinque miliardi. Cose da pazzi.
Perché parla di “follia”?
In quale altro paese del mondo si fa una legge per attuare un commissariamento ambientale (che non esiste nell’ordinamento giuridico) di due anni e poi in quei due anni si fa fallire l’azienda per ottenere l’esproprio senza indennizzo? In quale altro paese del mondo una procura come quella di Taranto viene stigmatizzata dalla Corte costituzionale per aver impugnato un decreto governativo e poi si spinge a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva e riceve in risposta dall’Alta corte la cancellazione «senza rinvio» del provvedimento, perché «abnorme» e «fuori dall’ordinamento»? In quale altro paese del mondo una Regione e un Comune ricorrono al Tar contro l’Aia del governo, discettano di decarbonizzazione, che prevede l’impiego di grandi quantità di gas, e poi impediscono la realizzazione del Tap (il Gasdotto trans-Adriatico che permette l’afflusso di gas naturale in Italia dall’area del Mar Caspio, ndr)? Se siamo arrivati fin qui è per la propaganda, la mancanza di informazione e di conoscenza siderurgica e chi più ne ha, più ne metta.
L’economia italiana cresce poco, ma cresce. I segnali sono positivi?
Il nostro problema è il debito da 2.300 miliardi. Un paese debitore come il nostro non può che vivere di credibilità, quindi bisogna fare attenzione non solo alle cose che si fanno, ma anche a quelle che si dicono pubblicamente. Se si alza lo spread, è inutile gridare al complotto internazionale. Dobbiamo guadagnarci la fiducia degli investitori. A parte questo, il ciclo è positivo, come non lo era da anni, l’industria manifatturiera esporta e realizza record in tanti comparti nei quali primeggiamo. Restano però dei problemi.
Quali?
Siamo carenti nella produttività per quanto riguarda la Pubblica amministrazione, ci sono strozzature infernali, e nella logistica. Sento parlare di blocco delle grandi opere come il terzo valico, un canale solo ferroviario per consentire al porto di Genova di essere più competitivo rispetto ai grandi porti del Nord Europa. Come si può metterlo in discussione? La stessa cosa vale per la Tav. Sono opere che garantiscono un miglioramento anche dal punto di vista ambientale, perché favoriscono il trasporto delle merci su rotaia e non su gomma, e noi le blocchiamo? E come vogliamo muoverci allora, con le carrozze a cavalli?
I costi di realizzazione però sono alti.
Sì, ma sono moltiplicatore degli investimenti perché fanno lavorare le nostre aziende. Per realizzarle, infatti, sono necessarie forniture di cemento, acciaio, automazione, digitalizzazione. Spero che il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli faccia un’analisi seria.
Ha letto il contratto di governo?
Sì.
Le piace?
La cosa sconvolgente è che non si cita mai la parola “industria”. Ancora più sconvolgente è che neanche il primo ministro, Giuseppe Conte, abbia mai parlato di industria in due discorsi davanti alla Camera e al Senato. Darla per scontata è un errore: se viene trascurata per cinque anni deperirà come una piantina che non viene annaffiata.
Una delle “riforme bandiera” del programma è la flat tax. È favorevole?
Sono favorevole ad abbassare le tasse perché un sistema fiscale meno vessatorio e meno rapace favorisce consumi e investimenti. Però serve molto realismo e poca ideologia. Le coperture non si trovano per magia, se si vuole fare la flat tax bisogna ripensare le aliquote dell’Iva in modo tale da colpire i consumi, dal momento che i grandi evasori sono anche grandi consumatori.
Non è una misura che aiuta solo i ricchi?
I redditi sopra i 300 mila euro l’anno in Italia raggiungono livelli di tassazione che superano il 50 per cento. È come se una persona lavorasse per 6-7 mesi all’anno per il suo socio occulto, cioè lo Stato. Non è che questo induca a fare investimenti.
E il reddito di cittadinanza?
È solo un modo per creare assistenzialismo e lavoro nero. Bisogna dare e creare lavoro, non sussidi. È chiaro poi che bisogna occuparsi delle fasce più deboli e povere, ma il reddito di cittadinanza non è la risposta giusta.
È un giudizio negativo anche sul suo sponsor, il ministro Di Maio?
Vedremo cosa farà, ma non dimentico le frasi che ha pronunciato sull’impeachment del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che invece si è comportato benissimo nelle fasi di costituzione del governo. Come dicevo prima: è importante non solo quello che si fa, ma anche quello che si dice. Non si può ripetere tutti i giorni che la nostra è la Costituzione più bella del mondo e poi dimostrare di non averla neanche mai letta. Speriamo sia solo un prezzo pagato all’inesperienza.
Nella sua vita precedente è stato un politico, segretario regionale del Psi nei momenti più duri per il partito, quelli di Tangentopoli. Sono passati venticinque anni. Che cosa ricorda di quel periodo?
Mi sono insediato nel luglio del 1991 e ho festeggiato con Craxi il centenario del partito socialista a Genova nel novembre del 1992. Poi è cominciata la tragedia. Ho vissuto quegli anni con grande passione, cercando di assistere le famiglie di chi finiva in galera. Facevo più l’assistente sociale che il dirigente politico. Probabilmente sarei diventato deputato o senatore, invece nel 1994 ho lasciato la politica attiva. Ma il bagaglio di esperienza che mi ha dato il Psi, dai 16 ai 40 anni, mi è stato utilissimo nell’attività imprenditoriale.
Come?
Ho sempre avuto una concezione responsabile, solidale e inclusiva dell’impresa, un po’ olivettiana. Uno dei motivi per cui oggi siamo in crisi è l’incapacità delle élite di essere inclusive nei confronti del popolo e se le élite non si occupano della gente, non servono a niente. Io ho sempre cercato di trasferire questa idea nella mia impresa. Sono orgoglioso che la Duferco sia famosa per la sua capacità di valorizzare il capitale umano. Questa filosofia cerchiamo di passarla anche alle nuove generazioni.
Cosa ha lasciato Tangentopoli nella vita politica odierna?
Un grande vuoto. In quegli anni è stata azzerata una classe dirigente con l’illusione che dall’oggi al domani sarebbe stato possibile costruirne una nuova. Non era così e non è andata così. Oggi rimpiangiamo personaggi della statura di Craxi, Andreotti, Fanfani, Moro o Berlinguer. Se li paragoniamo ai politici odierni, sembra di vivere in un altro mondo. Prima giocavamo in Champions League, ora neanche in Serie A. Una classe dirigente è stata spazzata via e oggi sappiamo che è difficile costruirne una nuova. Non c’è da stupirsi se le élite italiane sono in crisi dal 1994 e se lo Stato è debole.
Dopo sei anni, a settembre lascia la presidenza di Federacciai. È soddisfatto?
Rifarei questa esperienza, è stato un onore per me rappresentare un settore fondamentale dell’economia italiana e delle famiglie così importanti. In Italia ci sono venti grandi imprese siderurgiche con famiglie che hanno sempre reinvestito gli utili in azienda, creando lavoro e centri di eccellenza che tutto il mondo ci invidia. Questa è la vera responsabilità sociale dell’imprenditore: investire continuamente nel miglioramento tecnologico e nella formazione del capitale umano. Cosa si può chiedere di più?
Nessun rammarico?
Non essere riuscito a impedire l’esproprio senza indennizzo dell’Ilva. Questa è una sconfitta per l’Italia e per tutta la categoria, quindi anche per me che in questo periodo l’ho rappresentata. Mi dispiace di non essere riuscito a difendere i Riva.
Ora potrebbe arrivare Mittal. Vuole lanciare un messaggio ai francesi?
Non pensino di venire in Italia a dire: «La siderurgia c’est moi». Qui non siamo in Francia o in Polonia, ma in Italia: abbiamo grandi imprese, grandi famiglie e grande tradizione.
Foto Ansa
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