
Anche l’Onu s’è presa l’influenza cinese

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Sarebbe stato veramente come nominare Dracula alla presidenza dell’Avis. Perché è vero che l’anno scorso per la prima volta la Cina è diventata il paese numero uno al mondo per domande di brevetto internazionale, superando gli Stati Uniti. Ma è anche il paese responsabile dell’80-85 per cento dei prodotti contraffatti o piratati in circolazione nel mondo, per un valore superiore ai 400 miliardi di dollari. Così il progetto di Pechino di fare nominare alla testa dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (Wipo nell’acronimo anglosassone) la cinese Wang Binying, attuale vicedirettore dell’organizzazione, nella quale opera sin dal 1992, è fallito: al momento del voto i due terzi dei rappresentanti dei paesi componenti il comitato di coordinamento della Wipo hanno scelto di dare la loro preferenza al candidato filo-occidentale Daren Tang, direttore generale dell’Ufficio della proprietà intellettuale di Singapore; a settembre l’assemblea generale delle Nazioni Unite dovrebbe ratificare la sua nomina.
Fosse riuscito il colpo, la Cina avrebbe segnato un record storico: per la prima volta cinque personalità con passaporto dello stesso paese sarebbero state contemporaneamente ai vertici di altrettante agenzie specializzate delle Nazioni Unite, in aggiunta al responsabile capo del più importante dicastero del segretariato dell’Onu, ovvero il Dipartimento per gli affari economici e sociali (Undesa), alla testa del quale dal 2007 ad oggi si sono alternati tre alti dirigenti della Repubblica Popolare Cinese. Si tenga presente che attualmente la somma delle agenzie specializzate dell’Onu, organizzazioni collegate e organi sussidiari dell’Assemblea generale è attorno alle 30 unità, e nessun paese detiene più di una poltrona (con la relativa eccezione del Portogallo, essendo il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il direttore dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni Antonio Vitorino, entrambi portoghesi). Invece sono cinesi – in ordine cronologico di assunzione della carica – il direttore generale dell’Unido (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale) Li Yong, il segretario generale dell’Itu (Ufficio internazionale delle telecomunicazioni) Zhao Houlin, il segretario generale dell’Icao (Organizzazione internazionale dell’aviazione civile) Fang Liu e il direttore generale della Fao (Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura) Qu Dongyu, nominato nel giugno dell’anno scorso. A capo dell’Undesa c’è dal 2017 Liu Zhenmin, già viceministro degli Esteri cinese.
La polemica sul crescente potere di condizionamento della Cina sul sistema delle Nazioni Unite è diventata incandescente nell’aprile scorso, quando Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero più versato la loro quota di contributi all’Oms, perché l’organizzazione incaricata di vegliare sulla sanità a livello mondiale stava coprendo le responsabilità della Cina nell’occultamento di informazioni e quindi nel diffondersi del contagio da Covid-19 in tutto il mondo.
A capo dell’Oms non c’è un cinese, ma un ex ministro della Sanità e degli Esteri etiopico, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che però è considerato un alleato di ferro di Pechino. L’Etiopia deve alla Cina il 60 per cento di tutti gli investimenti esteri diretti nel paese, che l’anno scorso ammontavano a 2,5 miliardi di dollari. Ghebreyesus fu invitato a parlare all’Università di Pechino pochi mesi prima della sua elezione nel maggio 2017, e lì auspicò una più intensa cooperazione fra la Cina e i paesi del Sud del mondo in materia sanitaria.

Appena entrato in carica ebbe la balzana idea di nominare ambasciatore di buona volontà dell’Oms per le malattie non trasmissibili niente meno che Robert Mugabe, l’allora 93enne dittatore che in 37 anni di potere incontrastato aveva trasformato lo Zimbabwe, paese a medio reddito, in un caso disperato di corruzione, malgoverno e miseria diffusa, senza parlare delle violazioni dei diritti umani su vasta scala. Quali meriti aveva allora l’anziano presidente? Senz’altro quello di essere l’alleato storico in Africa della Cina, il paese che aveva finanziato il suo movimento di lotta armata al tempo dell’insurrezione contro il regime segregazionista dell’allora Rhodesia governata dai bianchi. Alla Cina Mugabe aveva poi aperto le porte dello Zimbabwe. L’alzata di scudi internazionale contro la nomina convinse il neo direttore a ritirare il provvedimento nel giro di una settimana.
Non sono invece bastate le proteste di molte organizzazioni internazionali per la protezione della fauna selvatica e delle associazioni animaliste a impedire che l’Oms iscrivesse la medicina tradizionale cinese nel suo Global Medical Compendium nel maggio dello scorso anno: com’è noto, molti rimedi tradizionali cinesi utilizzano parti di animali in via di estinzione, come tigri e rinoceronti.
Le prime sconfitte
Contro la crescente influenza della Cina sul sistema Onu gli Stati Uniti hanno iniziato a prendere le loro contromisure nel gennaio di quest’anno, quando il Dipartimento di Stato ha assegnato Mark Lambert, già inviato speciale per la Corea del Nord, all’Ufficio per gli affari delle organizzazioni internazionali, con lo specifico compito di rintuzzare il progetto di egemonia cinese all’interno degli enti multilaterali. La sconfitta della candidata cinese alla direzione della Wipo nel marzo scorso rappresenta il primo successo sul campo dell’unità di crisi guidata da Lambert.
Il secondo successo è arrivato a metà di aprile, quando l’Onu ha dovuto fare marcia indietro sulla sua decisione, annunciata il 30 marzo con un comunicato stampa che è stato poi rimosso dal sito, di stringere un partenariato con Tencent, la più grande azienda cinese di telecomunicazioni e gestione di social media. Tencent avrebbe messo a disposizione le sue piattaforme (VooV Meeting e WeChat Work, più il servizio di traduzione simultanea) per il dialogo online col pubblico di tutto il mondo che l’Onu vorrebbe avere nel mese di settembre, in coincidenza col 75esimo anniversario della nascita dell’organizzazione. Piccolo problema: Tencent è il più solido complice delle politiche di censura e di sorveglianza della rete attuate dal Partito comunista cinese. La sua ultima impresa in ordine di tempo è quella di aver bloccato, nel mese di dicembre, le conversazioni che contenevano parole chiave relative al Covid-19: Tencent è dunque corresponsabile dell’occultamento di informazioni che ha favorito il diffondersi dell’epidemia. Due settimane di proteste e pressioni da parte del governo americano, di deputati del Congresso e di organizzazioni per i diritti umani hanno costretto il Palazzo di Vetro a fare marcia indietro.
L’asse con le economie emergenti
Pechino non l’ha presa bene né in un caso, né nell’altro. All’indomani della votazione che ha penalizzato la sua candidata alla direzione della Wipo, ha accusato Washington di avere intimidito e ricattato le delegazioni che avevano il compito di scegliere il nuovo direttore, minacciando di tagliare prestiti e aiuti. Cosa faccia la Cina – paese che presenta un bilancio ufficiale di soli 3,3 miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo dei paesi più poveri, contro i 74 del blocco dell’Unione Europea e i 34,3 degli Stati Uniti – per assicurarsi il voto della maggioranza dei paesi affiliati alle Nazioni Unite e sconfiggere i candidati occidentali o filo-occidentali in quasi tutte le sfide elettorali in cui si impegna, è oggetto di accuse altrettanto rabbiose. Quando nel giugno dell’anno scorso il candidato cinese alla direzione della Fao Qu Dongyu ha surclassato la candidata francese sponsorizzata dall’Unione Europea Catherine Geslain-Lanéelle per 108 voti a 71, la stampa transalpina non l’ha presa bene. Le Monde ha pubblicato un articolo nel quale una fonte diplomatica anonima accusava la Cina di avere convinto il candidato africano, il camerunese Médi Moungui, a ritirarsi dalla competizione allungandogli un assegno da 62 milioni di dollari che servivano a coprire gli arretrati del Camerun nelle quote di partecipazione agli enti Onu e le spesucce personali, mentre paesi latinoamericani come il Brasile e l’Uruguay erano stati minacciati di un taglio all’importazione dei loro prodotti agricoli se non avessero votato per il candidato cinese.
Ma perché la Cina ci tiene tanto a penetrare il sistema delle Nazioni Unite? L’ovvia risposta è che tale penetrazione è funzionale ai suoi obiettivi di politica estera e alla sua strategia di riforma della governance internazionale in direzione di un multilateralismo imperniato sulla centralità politica, economica e finanziaria della Cina. La Belt and Road Initiative (Bri), nota in Italia come Nuova via della seta, grande progetto di infrastrutturazione che renderebbe organiche allo sviluppo economico cinese decine di paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, è attualmente il principale strumento di tale strategia. Come hanno scritto Alessia Amighini e Giulia Sciorati di Ispi, «controllare i programmi, i progetti e i fondi ha un grande peso sui paesi in via di sviluppo. La Cina infatti non è solo un membro del Consiglio di sicurezza con potere di veto, ma anche il paese con la maggior influenza sul Gruppo dei 77, una coalizione di ormai ben 135 paesi in via di sviluppo radicata nello storico movimento dei non allineati. (…) La presenza alla Fao o all’Undesa, per esempio, è espressione della volontà cinese di mantenere una relazione vantaggiosa con il Gruppo dei 77 che sono i maggiori riceventi dei frutti del lavoro di queste organizzazioni. In altre agenzie, come per esempio l’Unctad, da molti anni la Cina nomina il direttore di divisioni importanti, tra cui quella sul monitoraggio, l’analisi e le linee guida degli investimenti diretti esteri nei paesi in via di sviluppo, tema molto caro a Pechino».
Ecodisastri da esportazione
Grazie alla sua paziente opera di penetrazione, la Cina è riuscita ad avere il sigillo Onu sulla sua principale iniziativa di politica estera, la Bri, approvata addirittura come modello di sviluppo rispettoso degli standard ambientali. Nell’aprile dell’anno scorso Pechino ha lanciato la Belt and Road Initiative International Green Development Coalition, d’intesa con l’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente. Il coordinatore di tutte le agenzie Onu con sede in Cina, Nicholas Rosellini, informa che ben 20 agenzie delle Nazioni Unite stanno collaborando alla realizzazione della Bri.
Pechino pone molta attenzione anche nel rivendicare la compatibilità della Bri con gli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals) dell’Onu, ed è riuscita a fare in modo che il segretario generale Guterres al Belt and Road Forum dell’anno scorso a Pechino celebrasse «l’allineamento della Bri coi Sustainable Development Goals». Per scoprire quanto le parole e le campagne di pubbliche relazioni siano lontane dalla realtà basta leggere quel che scrive per Forbes Wade Shepard, il giornalista americano che da anni viaggia nei paesi destinatari dei progetti della Bri: «Mentre la Cina ha realizzato meritevoli avanzamenti in materia di risanamento ambientale nel proprio cortile di casa, sta esportando fonti energetiche sporche e industrie inquinanti in altri paesi lungo il percorso della Belt and Road Initiative, ripetendo molti degli stessi errori già fatti in casa propria. Non solo la Cina sta esportando il suo surplus di acciaio e cemento, sta anche esportando i suoi bassi standard lavorativi e il suo inquinamento, così come il suo modo poco trasparente di fare affari. Caratteristico fin qui della Bri è stato lo sviluppo delle infrastrutture trasportistiche ed energetiche, e la costruzione di autostrade, linee ferroviarie, porti, centrali elettriche e zone industriali in aree sottosviluppate rurali, il quale rappresenta una minaccia senza precedenti per la flora e la fauna locali».
Più carbone (e Co2) per tutti
Mentre fa da battistrada nello sviluppo delle energie rinnovabili e «sta rapidamente dismettendo l’uso del carbone in patria», aggiunge Shepard, «la Cina sta costruendo legioni degli stessi impianti a carbone antidiluviani all’estero. Secondo un rapporto del 2017, le istituzioni finanziarie e le imprese di costruzione cinesi erano coinvolte in non meno di 240 progetti di centrali a carbone nei paesi interessati dalla Bri. Se tutti gli impianti a carbone finanziati dalla Cina che sono in programma venissero costruiti, si avrebbe un aumento delle emissioni di Co2 pari a 276 milioni di tonnellate all’anno, l’equivalente di quanto emette la Thailandia».
Alternando vittorie a sconfitte, finora Pechino ha ottenuto il massimo con uno sforzo modesto, che però da tempo si sta facendo più robusto. Fino a 10 anni fa la Cina era soltanto l’ottavo paese contributore dell’Onu con 67 milioni di dollari che rappresentavano il 3,1 per cento di tutti i versamenti. Quest’anno per il secondo anno consecutivo si collocherà al secondo posto, superata solo dagli Stati Uniti, con 370 milioni di dollari, pari al 12 per cento di tutti i versamenti. La conferma di una scelta strategica.
Foto Ansa
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