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Analisi dell’“occasione Renzi” con sguardo ottimista e qualche sconforto

Nella situazione di crisi disperata in cui si trova il nostro Stato va apprezzato qualunque "spiraglietto" verso le riforme. Il premier è una di queste. Peccato che fin qui è sembrato più un Mario Segni che un Tony Blair

Lodovico Festa
09/04/2014 - 3:00
Politica
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Chi ha ancora un po’ di amor patrio, chi vuol ragionare nonostante tutto sui destini della comunità in cui è cresciuto, deve sforzarsi di cercare almeno uno spiraglio anche nelle situazioni più drammatiche. Deve insomma avere quello che in un’altra mia vita avrei chiamato un certo “ottimismo della volontà”. Però questo tipo d’ispirazione – si raccomandava opportunamente nell’altra vita – dovrebbe essere accompagnato da un rigoroso “pessimismo dell’intelligenza”, dalla consapevolezza che le catastrofi sono sempre possibili: non è che le cose migliorino perché lo desideri, solo un duro realismo che scruti a fondo le condizioni effettuali in cui si può agire, riesce a ottenere seriamente qualche risultato.

Proviamo dunque ora a contemplare con questa impostazione lo “spiraglietto Renzi”: scombinando i rapporti di forza nel Pd, immettendo una solida dialettica generazionale, l’ex sindaco di Firenze ha aperto senza dubbio qualche finestra di rinnovamento e creato problemi al blocco conservatore che attraverso la supremazia sul nostro Stato domina lo sviluppo (recentemente il non sviluppo) dell’Italia. La susseguente domanda necessaria è, però, se poi tutto ciò abbia il fiato per portare a termine un’impresa riformistica non dico completamente risolutiva dei nostri guai ma almeno rilevante, insomma non sia solo schiuma destinata a rifluire al primo ritirarsi dell’onda.

Va subito osservato che nelle condizioni disperate in cui ci troviamo non si può preventivamente disprezzare qualsiasi varco si manifesti. D’altra parte, però, affidarsi ingenuamente alla corrente, senza una riflessione critica, può portare a gravi delusioni in una stagione in cui le carte di riserva paiono scarseggiare.

Non posso dimenticare come un mio geniale amico si sia innamorato di Mario Monti considerandolo un duro riformatore in grado di dare un contributo essenziale al risanamento nazionale, mentre l’ex rettore della Bocconi, dopo avere eseguito su tasse e pensioni i compitini che gli venivano indicati dai suoi committenti europei, si è poi rivelato non solo un pasticcione ma anche una personalità stizzosa che ha dato il suo consistente contributo a peggiorare la situazione politica italiana. A lui e a quell’altro genio di Elsa Fornero dobbiamo molto del voto al 25 per cento per Beppe Grillo alle elezioni politiche.

Un altro dei miei più cari amici, con cui condivido molte analisi sulla realtà italiana e internazionale (pur essendo lui rimasto di sinistra e non divenuto un conservatore come me), anche in reazione al caos montiano, si è invece invaghito di Enrichetto Letta e riteneva che quest’ultimo avrebbe consentito uno stringente dialogo con Angela Merkel tale da produrre rapidamente importanti risultati.

Le mummie costituzionaliste
Proprio questi errori di valutazione, compiuti da persone per le quali provo non solo affetto ma anche stima per le loro qualità intellettuali, mi invitano a riflettere sul fenomeno Renzi con il necessario senso di urgenza ed emergenza ma anche con l’indispensabile cautela.

La nostra Repubblica inizia a entrare in crisi negli anni Sessanta, quando viene man mano applicata una Costituzione fatta più per impedire alcuni (veri) pericoli che per realizzare scelte decisive per uno sviluppo democratico ed economico solido. Il Sessantotto più lungo del mondo (più di dieci anni: più della Rivoluzione culturale cinese) poi finisce per introdurre un elemento di squilibrio strutturale in ordinamenti che esplodono alla fine di una Guerra fredda di fatto vera architrave della nostra impalcatura costituzionale.

Non è vero, come dice la pur sveglia Maria Elena Boschi, che è da trent’anni che riusciamo a fare solo bicamerali ma non riforme istituzionali. Ahimé! Oltre a scontare una difficoltà consistente a produrre un disegno razionale di riforma della Costituzione (così i fallimenti delle bicamerali), noi abbiamo anche prodotto una serie di interventi a strappo di portata costituzionale (anche se talvolta realizzati con leggi ordinarie) che hanno scombussolato il progetto dei padri costituenti, certamente troppo immobilistico ma almeno in qualche modo equilibrato.

Dalle regioni alle pensioni, dalla legislazione d’emergenza per la lotta prima al terrorismo poi alla mafia, al giusto processo fatto senza separare le carriere dei magistrati, dalla modifica dell’immunità e delle amnistie parlamentari senza parallele considerazioni per il rapporto tra politica e giustizia, alle elezioni dirette di sindaci-presidenti di Provincia-governatori attuate senza vere modifiche delle leggi sugli enti territoriali, dal mattarellum al porcellum, fino alla modificazione del titolo V per cercare di togliere due voti alla Lega, comprendendo le fondazioni bancarie, le privatizzazioni senza liberalizzazioni e senza diffusione thatcheriana dell’azionariato popolare, con un’adesione “antinazionale” (come si disse: abbiamo bisogno di un vincolo che ci disciplini dall’esterno) all’euro, insomma – e potremmo “elencarne” ancora – di scelte “strutturali” (in realtà per lo più destrutturali) sulle istituzioni sia per ciò che riguarda la Costituzione formale sia quella materiale, se ne sono fatte numerose nell’ultimo mezzo secolo e sempre con un ritmo imposto sostanzialmente – in tanti casi esclusivamente – dall’emergenza, evitando o minimizzando comunque il dibattito critico anche perché si doveva fare i conti con uno schieramento ostinatamente conservatore prima centrato su Dc e Pci, e poi su “las momias costituzionaliste” ben armate grazie alla Repubblica, alla Cgil più i vari Santori, Crozze, Travagli, GianAntonioStelle eccetera, e alla magistratura combattente.

Se si considerano gli uomini che hanno tentato di rompere l’immobilismo provocato dalla parte ordinamentale della Costituzione – prendiamo in esame quelli post Sessantotto, da Bettino Craxi a Mario Segni a Silvio Berlusconi – osserviamo che quando c’è una cultura politica abbastanza adeguata al soggetto che cerca di riformare scarseggia poi “la forza”, quando invece c’è la forza manca la necessaria base culturale.

Così si è riusciti a mettere mano a interventi anche rilevanti ma non a modificare la cornice generale che richiederebbe innanzitutto di rivedere le forme di rappresentanza e di governo dello Stato (solo un qualche tipo di presidenzialismo può salvare la nostra scassatissima sovranità nazionale), di sistematizzare le autonomie territoriali sempre più sbandate (ora stanno diventando impopolari anche i sindaci che erano a lungo rimasti il collegamento meno logorato del rapporto cittadini-istituzioni), e infine di riformare la magistratura spezzando il blocco di potere corporativo che oggi non controlla bensì sostituisce (e per di più in modo feudale e dunque caotico) la politica, il tutto separando i giudici (di cui va difesa strenuamente l’indipendenza) dai pm che per la loro attività obiettivamente politica devono trovare forme di coordinamento con il “titolare” della politica che in uno Stato democratico sono le istituzioni della sovranità popolare.

Più Mario Segni che Tony Blair?
Che non si trovi nessun serio richiamo a codeste questioni, che a me appaiono le fondamentali, nelle proposte di Matteo Renzi, nessuna reale idea dunque di come “ricostruire” uno Stato simile a quello che esiste in tutte le altre democrazie occidentali, fa capire come anche nel sindaco fiorentino il problema del rapporto tra cultura e forza necessarie per cambiare, come nei suoi precursori, non è risolto. Alla fine l’impegno renziano ricorda più quello di Segni che puntava tutto sul cavalcare l’opinione pubblica, i temi gianantoniostellamente graditi, rispetto a chi si è posto, pur con serie sconfitte di fondo, il problema di costruire le basi ora politiche ora sociali per cambiamenti veramente profondi.

Il fatto è che questa “mancanza” renziana non deriva solo da un deficit culturale ma è espressione della continuità di chi non vuole uno Stato con reali e ampie basi popolari: si cambia sì, ma dall’alto senza fare le elezioni, senza un’idea del ruolo dell’opposizione di cui s’approfitta della debolezza da giudice Esposito, senza una soluzione di sistema ma solamente immediata. Paragonare tutto ciò con l’opera di politici che hanno consolidato, non sfarinato, i propri Stati nazionali (la prova è poi sempre nella politica estera), dal duo Margaret Thatcher-Tony Blair a quello Felipe Gonzalez-José Aznar a quello Helmut Kohl-Gerhard Schröder, mi pare innanzitutto un’operazione propagandistica.

L’opera di Renzi (peraltro incistata nell’azione di un Giorgio Napolitano, che ha qualche merito per avere evitato crisi più pericolose, ma gravissime responsabilità nel non avere saputo aprire la via a una riforma nazionale impossibile senza scelte coraggiose di pacificazione) in questo senso apre qualche spazio ma è non solo culturalmente bensì pure strutturalmente limitata.

Il ruolo del centrodestra
Lo si vede in queste settimane sia dalla marginalità che l’Italia ha sul piano internazionale (emblematico Renzi che abbandona il G7 per sciogliere le province) sia dall’incredibile esplosione di caos da magistratura (dalla lotta Robledo-Bruti Liberati con la finale prevalenza della lotta agli abusi di ufficio rispetto a quella contro la ’ndrangheta, all’assoluzione del pm Nino Di Matteo da parte del Csm, al caos di accuse dei pm napoletani respinte dal tribunale di Roma contro l’ex vice capo della polizia, dalla tempestiva condanna di Paolo Scaroni all’altrettanto tempestiva condanna di Giuseppe Scopelliti: il che fa “quattro governatori di centrodestra” eliminati per via giudiziaria dal 2012, agli arresti esagerati di secessionisti veneti a Nicola Cosentino processato due volte per gli stessi reati e così via).

Se il renzismo non finirà per essere un’ennesima occasione mancata del riformismo italiano, ciò sarà possibile solo se il centrodestra non sarà subalterno come lo è oggi attraverso la sua disperata frazione Ncd e aiuterà con una vera dialettica bipolare la costruzione di un nuovo Stato, superando anche le derive populistiche ma integrandole, non emarginandole come sognano elitisti e sistemi di influenza straniera.

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