«Non mi fiderei troppo delle voci che parlano di un’unione tra Al-Qaeda e Stato islamico. I due gruppi sono molto diversi. E forse la strage in Kenya lo conferma». Guido Olimpio, esperto di terrorismo del Corriere della Sera, preferisce non rincorrere i rumors che attribuiscono al successore di Osama bin Laden, Al-Zawahiri, la decisione di «lasciare ai diversi gruppi qaedisti carta bianca» perché scelgano la propria strada. «Le fonti sono un po’ deboli, di terza mano, bisogna vedere se l’ha detto davvero», dichiara a tempi.it.
I qaedisti di Al-Nusra, però, in Siria combattono con gli uomini dell’Isis.
C’è solo un accordo tattico a Yarmouk, vicino a Damasco, per opporsi alle milizie palestinesi. Per il resto, si tratta di indiscrezioni. Non c’è dubbio che Al-Qaeda abbia perso terreno in molte parti del mondo, ma in altre, come lo Yemen, è ancora forte.
Che cosa impedisce ad Al-Zawahiri e Al-Baghdadi di stringere un patto?
Non è solo un problema di potere, ci sono anche divisioni ideologiche. Al-Qaeda è più prudente dell’Isis e non sono mai mancate al suo interno posizioni contrarie alle stragi indiscriminate. Finché è possibile, perché è in lotta con molti regimi arabi, Al-Qaeda preferisce non colpire i musulmani.
Come avvenuto in Kenya?
Esatto. Secondo molti, gli Shabaab nel 2012 hanno giurato fedeltà ad Al-Qaeda. Prima di uccidere gli studenti del campus di Garissa, hanno separato i cristiani dai musulmani, massacrando i primi e lasciando andare i secondi. Non sappiamo se l’abbiano fatto per rispettare il modus operandi appena descritto, però Al-Qaeda, al contrario dell’Isis, cerca di agire così.
Gli Shabaab quindi sono tutt’altro che finiti.
Hanno subito colpi durissimi nell’ultimo anno, molti li davano per scomparsi ma loro con un attacco brutale hanno dimostrato che non è così. Questo attentato è stato compiuto anche per fomentare l’odio tra la comunità dei cristiani e quella dei musulmani, esasperata per la situazione economica e sociale. Gli Shabaab ora cercano di reclutare anche dentro il Kenya, dove all’interno della comunità islamica si trovano molti estremisti. L’obiettiva difficoltà delle forze dell’ordine di opporsi a questi attacchi dicono poi di quanto il paese sia in difficoltà.
È vero che anche i talebani sono pronti ad affiliarsi al Califfato?
Negli ultimi mesi alcuni elementi sono passati con l’Isis, ma i talebani tradizionali sono ancora in posizione dominante. Lo Stato islamico usa con loro la stessa strategia già vista per altri gruppi jihadisti: cercano sempre di contestare la leadership. Se in Siria Al-Qaeda e Isis si sono divisi è perché il Califfo voleva che si sottomettessero a lui. Allo stesso modo in Afghanistan cercano di mettere in discussione la leadership del Mullah Omar, anche se ancora non ci sono riusciti.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, sul Corriere, ha detto di non escludere «l’uso della forza» per fermare i terroristi. Come potrebbe contribuire l’Italia alla lotta contro il terrorismo?
Io sono sempre scettico sugli interventi militari di questo tipo. Oggi c’è una lotta di egemonia tra diversi gruppi per guidare il movimento salafita. C’è poi un conflitto più ampio tra sunniti e sciiti. E non è possibile cancellare con una guerra una parte di popolazione, una base sociale o una precisa rivendicazione. L’Isis si può sicuramente contenere, ma se non si trova una soluzione al problema di fondo, se in Iraq non si ascoltano le richieste dei sunniti, domani anche se il Califfo verrà sconfitto, qualcun altro prenderà il suo posto. Ecco perché gli interventi militari mi lasciano perplesso ed ecco perché io sono d’accordo con la prudenza mostrata da Barack Obama, pur con tutti i suoi limiti. Da che parte bisogna stare in Medio Oriente? Con l’Iran o con l’Arabia Saudita? Comunque ti schieri, sbagli.
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