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Oltre il caso Woopi Golberg. C’è sempre qualcuno più inclusivo che ti esclude

La traballante conoscenza della storia dell'attrice sull'Olocausto (e una concezione ideologica di cosa è razzismo) è l'ennesima occasione di indignazione, censura e riabilitazione. Perché in nome dell'uguaglianza si finisce sempre per opprimere

Giovanni Maddalena
05/02/2022 - 6:30
Società
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Woopi Goldberg
Woopi Goldberg al Met Gala del Metropolitan Museum of Art lo scorso settembre (foto Ansa)

Ci mancava Woopi Goldberg a complicare il confuso mondo del politicamente corretto 2.0. La grande attrice di Sister Act nell’ultima settimana è riuscita a inanellare una serie di scivoloni sulla storia dell’Olocausto che la portano a essere sospesa per due settimane. Prima dice che nell’Olocausto non si trattava di razzismo perché era una vicenda «di bianchi contro bianchi», quindi è un problema non di razza ma di come gli esseri umani si trattano in generale. Poi, per scusarsi, in un altro show, sostiene che in realtà non era un problema di razza ma di etnia, causando ovviamente nuova indignazione.

La traballante conoscenza della storia

La traballante conoscenza della storia viene subito stigmatizzata da tutti, anche dalla Anti-Defamation League che ha cambiato la definizione di razzismo in chiave americanissima di white vs black, escludendo ogni altra forma di razzismo, salvo poi prendersela con Woopi perché applica quanto detto. Avvitamento assicurato: in nome dell’inclusione degli uni si escludono gli altri che si erano inclusi prima perché erano stati esclusi. Il tremendo ragionamento binario incluso/escluso, che non contempla mai vie di mezzo, eccezioni e continuità è un meccanismo infallibile che funziona come tagliola. E, parafrasando la frase celebre di Pietro Nenni sui puri, anche qui si trova sempre quello più inclusivo che ti esclude.

Il solito spettacolo di scuse e controscuse

Da qui, indifferente a ogni logica, è cominciato il solito spettacolo: affermazione sbagliata, indignazione, scandalo, scuse, indignazione ancora, controscuse, comunicati di dissociazione, un altro po’ di indignazione, e infine, panacea di tutti i mali, la punizione. Ora la coscienza sta meglio, fino alla prossima affermazione sbagliata del prossimo attore/cantante/conduttore/sportivo.

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Lasciando perdere Woopi, che tornerà trionfante fra due settimane con un monologo sull’esperienza della punizione riabilitatrice, riflettiamo su alcune caratteristiche comuni di questa sequenza.

La prima è l’indignazione. Indignados era il nome di un gruppo di giovani protestatari spagnoli che ha dato poi origine a vari partiti, come indignati erano le migliaia di fan di Grillo un lustro fa (ma sembra un secolo). Ci indigniamo, spesso sui social, perché siamo maledettamente o dannatamente chiusi su noi stessi, incapaci di immedesimarsi nelle ragioni di altri o, almeno, di domandare e domandarsi le ragioni di altri. Siamo moralisti nel senso peggiore del termine, che ben si attaglia ai sistemi binari: misuriamo tutti su noi stessi e ogni diversità diventa inconcepibile e ogni incoerenza – altrui s’intende – intollerabile.

Ci interessa davvero sapere cosa pensa Woopi Goldberg?

La seconda caratteristica è che in realtà non ci interessa capire. Non ci interessa capire davvero che cosa pensa Woopi Goldberg. Solo che, se non ci interessa, non dovremmo indignarci né occuparcene. Era quello che si faceva una volta con gli attori: li si equiparava a pazzi e tutto potevano dire e fare. Invece, noi li ergiamo a modelli, politici, studiosi, educatori e affidiamo a loro temi complicati e profondi, salvo poi lamentarci del fatto che se ne occupino male.

Vogliamo sapere davvero che cosa pensa Goldberg dell’Olocausto? Di che cosa sia per lei il razzismo? Si decida: se sì, occorrerà ascoltarla e discutere, e magari perdere tempo a spiegarle qualcosa sull’Olocausto. Altrimenti, si lasci stare. Ma ovviamente conviene di più il ciclo indignazione, scandalo, scuse, punizione: sono quattro puntate assicurate.

L’ideale è che il colpevole si autoaccusi

Infine, la punizione in terra per aver detto cose sbagliate come sgravio della coscienza, fine armonica dell’universo. C’è qualcosa di terribilmente religioso in questa cerimonia della colpa e della punizione, che fa rientrare la modernissima ecosfera comunicativa nella ritualità calvinista da Lettera scarlatta. Chi sbaglia, paga e con questo ogni malessere è equilibrato, ogni torto raddrizzato, il dio è stato vendicato. È una lezione importante da studiosi di sistemi totalitari: come diceva Hannah Arendt, il sogno dei totalitarismi è para-religioso e idolatrico: creare l’uomo nuovo, che abbia una nuova natura, più giusta ovviamente.

Per questo si può dare con leggerezza la gogna o la morte, perché è in nome di una nuova natura più buona, giusta e grande. Anzi, l’ideale è che il colpevole si autoaccusi e autopunisca. Bisogna stare attenti, altrimenti in nome della natura egalitaria nuova, il liberalismo culturale diventerà il suo tragico opposto: la società liquida si volgerà, come sta accadendo, nella più rigida e oppressiva di sempre.

Tags: cancel cultureolocaustoPoliticamente Correttorazzismo
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