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L’ultimo 25 aprile della Repubblica pura e dura

«Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo». Dopo il congedo di Verdelli, la parabola di un quotidiano che ha "esaurito la sua spinta propulsiva", direbbe Scalfari

Luigi Amicone
25/04/2020 - 1:00
Cultura
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Carlo Verdelli con Eugenio Scalfari

Cronache dalla quarantena / 42

«Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo». Interpretate come «una cannonata» (Libero, “cannonata”?) contro l’editore, sono queste le ultime parole che Carlo Verdelli ha consegnato ai lettori, dopo la fine di un mandato da direttore antifascista, durato 14 mesi, de La Repubblica. Quotidiano del gruppo editoriale Gedi, con sede a Roma, via Cristoforo Colombo, strada battezzata nell’originario progetto fascista come via Impero, la più lunga d’Italia (27 chilometri) all’interno di uno stesso comune, poiché avrebbe dovuto accompagnare l’espansione dell’urbe fino al mare, collegando il centro città (piazza Venezia) con il quartiere sede dell’Expo universale (l’Eur, quartiere di monumentale architettura e spirito fascista di fine anni Trenta) per proseguire verso il Lido di Roma. 

Notizia topografica molto suggestiva se si pensa che il quotidiano Repubblica nasce a Roma (1976), all’indomani del temporaneo sorpasso elettorale del Pci sulla Dc, come costola del settimanale romano L’Espresso e come aggiornamento del comunista, romano e quotidiano Paese Sera, con l’obiettivo di portare tutta la sinistra sullo stesso pullman: da quella semibrigatista dei centri sociali alla moderata del Pci di Amendola, dal Psi alla triplice Cgil-Cisl-Uil del mondo dell’impiego statale. (Target che Repubblica replicherà sostenendo, a scadenza più o meno decennale, nel 1986 Pci e sinistra Dc di Ciriaco De Mita in chiave anti Craxi; nel 1996 Prodi I e l’Ulivo, in chiave anti Berlusconi; nel 2006 Prodi II e l’Unione in chiave anti Berlusconi; nel 2016 fine della storia con governi Renzi, Letta e Gentiloni).

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Chiusa la parentesi e un passo indietro. Dicevo che l’obiettivo di rassemblement a sinistra non venne raggiunto dal Fondatore Eugenio Scalfari, o quanto meno non venne raggiunto prima della primavera 1996, a causa dell’irruzione sulla scena politica di Bettino Craxi. Il tosto leader socialista che dopo il massacro da parte delle Brigate rosse degli uomini della scorta, il sequestro e infine l’assassinio del capo della Dc Aldo Moro, spostò il Partito socialista sull’asse decisamente non comunista e, anzi, anticomunista.

Solo a partire dal 21 aprile 1996, con la vittoria alle elezioni politiche dell’Ulivo di Romano Prodi (portavoce del quale fu il numero 2 di Repubblica, Gad Lerner) il Fondatore e direttore di Repubblica (che nel frattempo era già stato riccamente liquidato con 80 miliardi di lire dall’ingegnere Carlo De Benedetti) raggiunge insieme la pace del portafogli e la pace dei sensi politici. 

Dopo di che, avendo provveduto per tempo a patrocinare e a declinare in perpetuo, scolpite sotto la testata, le proprie generalità di Fundador, Scalfari si ritaglia un ruolo omiletico che dura ancora oggi nella edizione domenicale di Repubblica. Mentre dal 6 maggio 1996 al 14 gennaio 2016, il secondo e decisivo ventennio in cui si compie il destino di Repubblica è guidato da Ezio Mauro, già corrispondente del quotidiano da Mosca nelle fasi finali dell’Urss (1988-1992, un periodo storico cruciale) e grande penna di ferrigna ispirazione politica educata nel Pci di Torino.

Sarà lui, il comandante di armata rossa Ezio Mauro, a corrispondere pienamente all’obiettivo che si prefiggeva il Fondatore. E che finalmente l’editore Carlo De Benedetti rivendicherà con orgoglio di aver conseguito lui, futura tessera numero 1 del Pd. E si capisce, appostandoci anche un segnalibro per i suoi amici ex-neo-post Pci-Pds-Ds-Pd a badar bene di non dimenticarlo.

Certo, De Benedetti lo rivendicherà non prima di aver partecipato alle ricche privatizzazioni del governo Prodi (1996-1998). E non prima di aver spinto al governo quel Massimo D’Alema che Marco Travaglio insulterà di essere «entrato a Palazzo Chigi con le pezze al culo e di essere uscito ricco» (1999). Allora, e solo allora, dopo che le procure avevano fatto il loro dovere di terremoto del nuovo governo anticomunista uscito dalle urne dopo il trionfo di Silvio Berlusconi (1994); dopo il quinquennio di primo governo italiano delle sinistre a tre premier (1996-2000), da Prodi ad Amato passando per D’Alema; nel fare un primo bilancio di una vita da imprenditore e finanziere avventuroso (e qualcuno sostiene anche avventuriero), l’Ingegnere venuto dalla Olivetti di Ivrea confesserà al suo storico collaboratore e grande firma di Repubblica Federico Rampini: «Senza i miei giornali la sinistra non sarebbe al governo» (Per adesso, Longanesi, 1999).

Solo dopo la distruzione per via giudiziaria degli oppositori della sinistra. Solo dopo averla scampata bella dalla galera (Carlo De Benedetti subì un fermo, fu accusato di corruzione, se la cavò e ammise al Wall Street Journal: «Se dovessi rifare tutto di nuovo lo rifarei: pagherei le tangenti, quello era il sistema»), De Benedetti riconobbe il ruolo di nuova Unità che ha avuto il suo giornale mentre il posto dell’Unità sarà presto occupato con la nota torsione manettara e rossobruna dal Fatto di Padellaro & Travaglio.

Liquidato Berlusconi (sempre per vie giudiziarie, ma questa volta con adeguata collaborazione internazionale dato che il Berlusconi del 2010 guidava il governo più votato della storia repubblicana), il quotidiano della «nota lobby» (copyright Francesco Cossiga), “esaurisce la sua spinta propulsiva”, per dirla con una delle fanfaluche più avvincenti inventate da Eugenio Scalfari, quel mito delle “mani pulite” del Pci di Enrico Berlinguer, che oggi farebbe il paio con la rivelazione dell’ultimo Scalfari secondo cui papa Bergoglio non crederebbe a Gesù uomo e Dio.

Dopo di che a Repubblica non rimane altro che il compito – e che compito! – di sostenere il proprio editore nella battaglia per portare all’incasso, sempre per vie giudiziarie, la mezza miliardata di euro (più interessi) derivante, sentenzia definitivamente la Cassazione, dal taroccamento dell’antichissimo lodo Mondadori. Risalente addirittura alla fine degli anni Ottanta. E che dai e dai, con i processi che infine appurarono la corruzione di un giudice, venne definitivamente risolta nel 2013 dalla Cassazione con la condanna della Fininvest di Berlusconi a sborsare 496 milioni di risarcimento alla Cir di De Benedetti (con gli interessi si arrivò a 541).

Il resto è storia di questi giorni. Ezio Mauro lascia la poltrona a Mario Calabresi nel 2016. Crollano le vendite non per mancanza di bravura dell’ex direttore della Stampa. Ma per evidente crisi di identità e scopo di Repubblica. Poi i De Benedetti vendono la corazzata ammaccata agli Agnelli. Infine il mondo è cambiato. Arrivano gli Agnelli in versione lupacchiotti del Nord Europa e Nord America. E ai comunisti puri e duri non resta che festeggiare l’ultimo 25 aprile. «Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo».

Foto Ansa

Tags: bettino craxicarlo de benedetticarlo verdellieugenio scalfariezio maurogediLuigi Amiconemario calabresiquarantenarepubblicaRomano ProdiSilvio Berlusconi
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