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Telecom, Alitalia e la rovina della nostra industria, usata come prosecuzione della guerra politica con altri mezzi

Se i vari D’Alema, Prodi, Bersani, Veltroni e oggi Renzi avessero avuto un decimo della capacità di riconoscere l’avversario che c’è stata nel centrodestra, le nostre imprese non sarebbero in queste condizioni

Lodovico Festa
07/10/2013 - 3:30
Interni
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Talora si fanno previsioni terrorizzanti anche un po’ per scaramanzia. Poi la cronaca mostra come oggi in Italia i fatti catastrofici prevalgano sulle opinioni, per quanto pessimistiche. Al di là dei casi particolarmente drammatici della politica, bastano quelli economici (da Telecom Italia ad Alitalia, da Avio a Mps, dalle manovre tedesche su Intesa a quelle murdocchiane sul Corriere) a raccontarci di un “attacco finale” al nostro paese: dal cinquecentesco “Franza o Spagna purché se magna” si è passati a un “tutti al desco sia american o tedesco”. Il colpo finale lo ha dato Enrico Letta, completando l’opera di quel maggiordomo delle influenze straniere che è stato Mario Monti: il problema non sono tanto le cose dette e non fatte (qualcosa si è fatto), ma che una delle cose essenziali – una seria pacificazione dell’Italia – per farla bisognava anche dirla esplicitamente.

Se restiamo al lato economico delle questioni più recenti, quelle di Telecom e Alitalia sono storie che segnano tutto l’ultimo ventennio. Ci parlano del dono che Romano Prodi fece alla Fiat con il nocciolino di Telecom, della cecità cigiellina di fronte alla compagnia di bandiera, del velleitarismo dalemiano con i capitani coraggiosi incitati ma poi non sostenuti politicamente, della decadenza di Mediobanca sotto la guida di Alberto Nagel che affianca la resistibile ascesa di Marco Tronchetti Provera, dell’altro dono prodiano (stavolta a Nanni Bazoli) che liquida Tronchetti.

Se però si vuole individuare uno dei baricentri della disfatta nazionale, questo va collocato nello sbandamento del sistema bancario. Mentre in tutte le grandi nazioni alcune banche rilevanti costituiscono, dopo le avvenute opportune privatizzazioni, l’ultimo presidio di difesa degli interessi strategici nazionali, da noi questo presidio si è incrinato a partire dalle tre grandi (Intesa, Unicredit e Monte dei Paschi). Si è persa – innanzitutto grazie al ruolo “impossibile” delle fondazioni – nelle tre “grandi” la capacità di essere banchieri al modo dei Cuccia, dei Mattioli ma anche dei Dell’Amore, dei quadri Imi e di quell’intelligenza industriale che nonostante terribili eccessi di clientelismo continuava ad abbondare nella finanza di Stato.

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Il problema non è che “i nuovi” si occupino ancora troppo di potere: quando mai un banchiere non si occupa di potere? Alessandro Profumo, in questo senso, il più ritrattosi dal potere inteso come condizionamento mediatico-politico, è stato tra i peggiori: così le sue divisionalizzazioni, l’Ubm, il suo maneggiare derivati. Ma altrettanto pessimo nei risultati alla fine è Bazoli, incapace di avere quell’attenzione all’industria che fece primeggiare i grandi banchieri, e pronto a rifugiarsi (spesso affiancato o sostituito da Corrado Passera) su reti, autostrade, aree edificabili fino alle speculazioni finanziarie di Romain Zaleski, dovunque si potesse prevedere una rendita politicamente o bancariamente protetta: e peraltro dopo il 2008 evaporata. E non parliamo di Giuseppe Mussari (giustamente messo a rappresentare cotesta categoria) con il suo dissennato acquisto dell’Antonveneta.

Le conseguenze della mancata pacificazione
Si dirà: anche Silvio Berlusconi ha messo molto del suo nel cucinare questo scenario. Il che è obiettivamente vero: proprio a un leader tutto istinto e sondaggi si deve la carenza strategica che ha indebolito le chance riformiste. Va peraltro ricordato come Berlusconi, ben diversamente da centrosinistra ed establishment, sia stato l’unico a tenere una linea di condotta che poteva aiutare a uscire dalla crisi. In tutte le partite rilevanti (con eccezioni in parte nelle televisioni – e comunque consentendo l’accesso di un player duro come Rupert Murdoch – dove erano in gioco fortune di casa) le scelte del centrodestra sono state di apertura: non vi è stata opposizione alla cordata Colaninno pur essendo chiaramente di sinistra né a quella Tronchetti pur ispirata da un asse Mediobanca-Montezemolo che portò al secondo governo Prodi, l’Alitalia per risanarla (malamente ma salvando Malpensa: velenoso cadeau che Prodi faceva ai francesi) è stata affidata a Roberto Colaninno e Passera, due personalità totalmente estranee al coté berlusconiano. E così via.

Se nei vari D’Alema, Prodi, Bersani, Veltroni e oggi nel marcio opportunista Matteo Renzi si fosse avuto un decimo della capacità di riconoscere l’avversario che c’è stata al vertice del centrodestra, non saremmo in queste condizioni. Vale anche per i vari cavalieri super partes con il loro stemma araldico del “coniglio bianco in campo bianco”. Alla fine la radice di tutto questo degrado sta nel non aver assunto apertamente l’obiettivo della pacificazione, consentendo così il prevalere dell’iniziativa di chi poneva apertamente la prospettiva di distruzione politica di un’intera solida area della società (considerata di “sudditi”, non di cittadini). In uno Stato già ben conciato per conto suo, demolire una fetta decisiva di consenso sociale è un suicidio di cui approfitta chiunque: persino gli spagnoli peggio messi di noi.

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