Si sta stretti nel Dpcm fiction della fase 2 (o meglio 1 e mezzo)

Di Caterina Giojelli
16 Maggio 2020
Sguarniti e disarmati, col prof ridotto a pixel e il mondo a un device, che ne sarà di noi? E dei nostri figli? Chiacchierata con Antonio Polito
Selfie davanti a un murale di Pulp Fiction in versione emergenza coronavirus

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Si può, non si può, amici no, cugini di sesto grado sì, dove, qui, lì, ora, domani, e adesso, che vengo a fare se non ti posso abbracciare? Dissistemati e distanti: una girandola di ordinanze e circolari ministeriali copre a bracciate ogni spazio che sentiamo potrebbe includerci – e noi qui, libero arbitrio arrugginito, incerti su ogni certezza naturalmente praticata, a consultare freneticamente i codicilli anche solo per allontanarcene come una molla: «Che vengo a fare se non ti posso abbracciare? Me lo ha chiesto mia figlia e non è una domanda di poco conto. Siamo il paese delle pandette, ora serve un testo giuridico per spiegarci cosa sia un congiunto e una circolare interpretativa per chiarire cosa sia una passeggiata. Era più facile la fase 1, era tutto proibito. Ora la giuridicità ha preso il sopravvento sulla vita, siamo entrati in una grande fase 1 e mezzo in cui padre e figlia, sorella e fratelli, innamorati d’Italia, possono vedersi ma non toccarsi, perché ci viene detto come fare anche ciò che non è più proibito fare. Ma la vita è più grande di un Dpcm».

Da settimane Antonio Polito non lascia disseccare il nocciolo della questione, quel “ma oltre tutto questo fate bene attenzione a”, affrontando, un editoriale sul Corriere dopo l’altro, cronache e fatti di ottimisti e pessimisti, manettari e disperati, messe chiuse e Borsa aperta, mentre alle spalle infuria la didattica a distanza, «dad, mai acronimo fu più azzeccato per ciò che alle elementari altro non è che un gigantesco esperimento di homeschooling, educazione parentale a casa. In altre parole: chiedi a papà». 

Come tutti anche l’autore di Contro i papà e Riprendiamoci i nostri figli ha vissuto il corpo a corpo con i suoi e l’eclissi del corpo docente, «encomiambili, lodevoli, ma non più corpo, pixel, non più lavagne ma i marosi di google, non più classi ma call. E io credo che un bambino delle elementari non sia in grado di gestire un rapporto a distanza, mi basta sentire mia figlia litigare dentro a uno smartphone con le compagne». È allora che un groppo chiude l’anima a un genitore, «ora il tentativo di educazione passa necessariamente da quel device bandito in classe, i bambini sono stati costretti ad adultizzare i loro rapporti, il modo di vivere una collettività, la compagnia degli amici».

Antonio Polito

Secondo Polito saranno loro a pagare il prezzo più alto, non solo in termini di istruzione: un’intera generazione di scolari formati nell’isolamento di una cameretta, «tanto più costretti ad accorgersi e portare il peso di tutto ciò che è chiamato disuguaglianza sociale. Seduti al banco sono tutti uguali, seduti in camera no, c’è chi non ha nemmeno un computer davanti a cui mettersi o una connessione di cui lamentarsi. La dad ci porterà un sacco di guai, o almeno al digital divide tra studenti attrezzati e penalizzati. Lode alla tecnologia quando è un ausilio, non quando è la sede dell’uomo».

A meno che

Per mezzo secolo l’Italia è stata spaccata in due partiti, quelli che pensavano che ciò che andava storto fosse colpa della società e quelli che pensavano che la colpa fosse un po’ di tutti. Oggi, che fino a prova contraria un virus non è colpa di nessuno, l’Italia è divisa in due e basta: quelli che hanno ancora un lavoro, e ricevono lo stipendio regolarmente, e tutti gli altri. Cioè quelli che non ce l’hanno, l’hanno perso, sospeso, chiuso, non sanno come riprenderlo, «quelli che aspettano la cig, che hanno chiesto aiuto all’Inps, che non l’hanno ricevuto dalla banca, quelli che non incassano, che non sanno come riaprire e quelli che non sanno a chi lasciare i figli, in una parola: quelli che non sanno come fare, come farcela. In principio l’emergenza ci ha colti tutti uniti, solidali, ciò che ha fatto irruzione in quella bolla presuntuosa in cui ci credevamo padroni del reale ci ha lasciato sguarniti, disarmati eppure stretti in qualche modo l’uno al destino dell’altro. Con l’allontanarsi della fase acuta la solidarietà è scemata, abbiamo inziato a dividerci in chi non aveva fretta di riaprire e chi iniziava a disperarsi, a contare i “perché lui sì e io no”. L’isolamento ha inasprito la solitudine, il risentimento sociale, ha creato nuove e gigantesche disparità. Io non credo affatto che dalla pandemia ne usciremo migliori. A meno che».

Polito ricorda che nel fragore della grancassa che ha nutrito il mito di una fine dell’esistenza controllabile, procrastinabile, e differibile sotto il manto di scienza e tecnologia, un fatto epocale è accaduto, «la morte è tornata ad affacciarsi nelle nostre case. C’è chi – il revanchismo anti-lombardo ne è la massima prova – ha reagito aprendo un fascicolo contro ignoti, o cercherà ancora una volta ragioni e colpevoli all’interno dei tribunali. E c’è chi invece ha fatto salti mortali. Chi ha messo in gioco la propria vita per provare a salvare quella degli altri. Io ripartirei da loro, dalla testimonianza e dal fuoco che abbiamo visto in medici, infermieri, e in chiunque sia stato all’altezza della sfida di un virus che fregandosene di una certa ubris che ci vuole padroni del nostro destino, ci ha preso a sciabolate fin dentro casa».

Non ne usciremo migliori procedendo a vista a meno che l’occhio sia ben puntato su ciò che non ci è estraneo e ci è fratello, guardando a fondo nel disfacimento e nel polverone, cercando il segno di presenze nascenti, una corrispondenza; non le pandette, non la tecnologia – «non temo tracciamenti, non obietto con la retorica di una fantomatica privacy all’uso di app che concorrono a salvare la vita a qualcuno, ma proprio perché ho a cuore un qualcuno» – ma sempre l’umano. Che non è mai uno, da solo, non ingiallisce in un Dpcm né si spegne come un Mac. 

Secondo Polito «ci sarà un prima e dopo, come accade solo dopo i grandi eventi storici: in due mesi Covid ha mietuto nella sola Lombardia cinque volte i morti civili della Seconda guerra mondiale. Il luogo di lavoro, per due secoli sede della storia del progresso umano, del progresso tecnologico, dell’organizzazione sindacale collettiva, dell’intermediazione, si è smaterializzato. Si apre uno squarcio dopo l’altro. Ma ci sono cose che corrono nel sangue, che ci allacciano, domande di figli a cui non possiamo che rispondere come il padre ne La strada di McCarthy: ce la caveremo perché noi portiamo il fuoco». E sarebbe una colpa imperdonabile lasciarci spiegare come, dove e quando dalla balbuzie di un Dpcm. 

Foto Ansa

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