Scioperi a sorpresa a Linate e Malpensa. «È il solito teatrino italiano»
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Il primo di agosto, proprio nel giorno clou delle partenze per le vacanze, i lavoratori dei servizi a terra degli aeroporti di Milano Linate e Milano Malpensa hanno indetto uno sciopero improvviso e non autorizzato. Il risultato sono stati oltre sessanta voli in ritardo, lunghe code ai check in e forti disagi nell’imbarco e nella consegna dei bagagli. Formalmente non si è trattato di uno sciopero (in base alla legge, nel periodo dal 27 luglio al 5 settembre gli scioperi negli aeroporti non sono consentiti): i lavoratori hanno organizzato alle cinque del mattino «un’assemblea spontanea» che a Malpensa è durata cinque ore e a Linate due. Il motivo della protesta riguardava la decisione di Ags, una società che controlla i servizi di terra negli aeroporti, di subappaltare una parte dei lavori alla cooperativa Alpina. L’Enac, l’Ente nazionale dell’aviazione civile, ha allora rinviato l’ingresso di Alpina nell’aeroporto di Malpensa a settembre.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«Fatta la legge trovato l’inganno. I lavoratori non potevano organizzare uno sciopero, ma hanno prolungato l’assemblea. Se anche non hanno contravvenuto alla legge, non hanno però rispettato l’etica» commenta a tempi.it il giornalista Mario Sechi. «Il diritto alle assemblee è un diritto sacrosanto, ma non può penalizzare gli utenti di quel servizio». Dopo il caos delle code e del recupero bagagli, «si è attivato il solito teatrino italiano». Il presidente della Commissione di garanzia per gli scioperi, Giuseppe Santoro Passarelli, ha dichiarato che per poter applicare le eventuali sanzioni ha prima bisogno di ricevere dall’Enac informazioni sulla natura dello sciopero, per capire se si sia trattato di un’agitazione spontanea dei lavoratori, di uno sciopero in bianco o di una protesta fuori dalle norme. «Non si prendono immediati provvedimenti perché non esiste uno strumento per sanzionare in maniera adeguata queste insubordinazioni» sostiene Sechi. Le sanzioni sono di natura pecuniaria e non prevedono il licenziamento per il lavoratore recidivo e insubordinato. «Il licenziamento finisce per essere deciso dal giudice perché c’è quasi sempre il ricorso da parte del lavoratore. Bisogna tenere presente che i tribunali spesso non sono favorevoli alle aziende e quindi è ben difficile che si arrivi al licenziamento».
È della stessa opinione Pietro Paganini, economista e cofondatore della piattaforma Competere – Policies for Sustainable Development. «Il lavoratore ha il diritto di sciopero all’interno del quadro normativo. In caso di ripetuta insubordinazione è giusto che il lavoratore venga allontanato, soprattutto perché non causa un danno solo al cittadino, ma indirettamente anche all’intera struttura organizzativa. In questo caso (ma come anche nella gestione dell’Atac a Roma), trattandosi del servizio di pubblico trasporto, si provoca in aggiunta un danno di immagine e di reputazione dell’Italia».
Per quanto il diritto di sciopero vada tutelato, sottolinea a tempi.it Paganini, le motivazioni di questa protesta sono molto fumose: i sindacati ritengono l’ingresso di Alpina «pericoloso», «un modo per svalutare il lavoro». «La verità sta spesso nel mezzo» continua. «Probabilmente è vero che molte società si servono di queste cooperative per tagliare i costi senza necessariamente migliorare il servizio. D’altra parte, i lavoratori che godono di una serie di benefici temono di perderli con un cambiamento dello status quo». Secondo Paganini, quello che serve è «una gestione manageriale e lavorativa molto diversa da quella attuale, che miri contemporaneamente ai profitti e alla qualità, e libera da legami politici. Oggi invece queste società, pubbliche o parzialmente pubbliche, e i sindacati hanno come unico obiettivo la spartizione del potere, quindi a fini elettorali». Paganini prende come esempio i casi romani di Atac e Ama: «Sono luoghi dove vengono sistemati interi nuclei famigliari e dove il potere di contrattazione di queste piccole corporazioni è fortissimo. Si è visto anche nel caso dei taxi contro Uber. La politica, soprattutto a Roma, piega il capo davanti a una serie di inefficienze pur di non scontrarsi con queste classi di lavoratori e perdere voti». La conclusione è che «finché queste società mantengono salda la presenza dello Stato, e dunque legami fortemente politici, non funzioneranno mai».
Foto Ansa
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