Rimarrà soltanto la piccola impresa a farci da “famiglia”?

Di Giulio Sapelli
27 Luglio 2013
L’involuzione neo-barbarica non ha coinvolto le Pmi solo perché non sono che la realizzazione sul piano economico della prima cellula della società naturale

La crisi economica mondiale ha profondamente cambiato l’industria. Essa è stata investita da una ondata di innovazioni pervasive e distruttrici di forza lavoro e nel contempo creatrici di produttività tecnica dall’intensità inaudita, quindi generatrici di aumenti di produttività inusitati, come si rende manifesto nella crescita impetuosa non solo dell’Itc, ma in primo luogo della meccatronica. Di conseguenza l’avvento di un nuovo paradigma tecnologico ha scatenato un abbassamento relativo della dimensione di scala dell’impresa in tutto il mondo.

La finanziarizzazione ha scatenato altresì la disintermediazione delle imprese in unità correlate o non correlate sottoposte al controllo del mercato della proprietà in una misura più intensa di quanto mai fosse prima successo. Di qui la dittatura manageriale, sostenuta da una involuzione accademica e mediatica neoliberista di inaudita violenza clonante e di impressionante regressione analitica. Essa ha favorito l’emergere di un capitalismo ultra-proprietario (Ur-Kapitalismus), con i manager possessori di azioni in modo dispiegato, con consustanziali conflitti d’interessi generati dal compenso in azioni dei manager medesimi, che scatenano in tal modo pulsioni acquisitive generate da una avidità sregolata, quella che il Santo Padre ha giustamente bollato come segmento di un generale nichilismo finanziario.

L’auto-attribuirsi – da parte dei top manager – stipendi inverosimili sul piano della giustizia distributiva viene accettato senza scatenare sentimenti di ingiustizia. Del resto il predominio ormai totalitario delle scuole economiche post-marginalistiche o neoclassiche ha glorificato l’ingiustizia. Così si è andato distruggendo anche il senso comune degli immensi vantaggi che l’economia mista e regolata ha donato al mondo nel Novecento e anche nella seconda metà dell’Ottocento. Documentazione di ciò è stata la proliferazione delle scuole di business che hanno devastato la formazione personale dei futuri dirigenti d’impresa, creando cloni viventi performanti che assumono decisioni devastanti nel corso delle ciclicità finanziarie.

L’avvento della globalizzazione ha profondamente trasformato l’impresa, portando in evidenza trasformazioni che maturavano nella sua struttura dagli anni Ottanta. La globalizzazione, del resto, è stata anche un’involuzione ideologica che ha fatto della parte il tutto, tentando continuativamente la reificazione nel lavoro di milioni di persone, mirando a trasformare lo status delle medesime da quello del salariato che contratta collettivamente a quello di schiavo moderno, di cui non siamo stati ancora in grado di elaborare una concettualizzazione. L’impresa piccola e piccolissima è la sola, con quella cooperativa tout court, a essere sfuggita a questa disastrosa trasformazione involutiva e de-civilizzatrice della grande impresa moderna.

Sono i comportamenti che fanno il mercato
È stato possibile sfuggire a questa involuzione neo-barbarica solo perché queste piccolissime imprese altro non sono che la realizzazione sul piano della distintività economico-monetaria della famiglia come società naturale “toniolamente” intesa. Esse sono sottoposte alle regole della dimensione dettate dalla cultura familiare che mira a difendere in forma corporata i suoi soggetti e componenti, anche salariati, con immensa forza emotiva. Ne abbiamo una drammatica conferma nel numero crescente dei suicidi a livello mondiale che hanno come protagonisti i piccoli imprenditori di qualsivoglia industria o servizio. E ciò perché la società più non li accoglie nel suo seno protettore. L’impresa, del resto, accresce la solitudine.

Essa dovrebbe essere – e lo è stata per secoli – l’esempio più fulgido di una fraternità operosa dei doveri e non solo dei diritti, al di là dei grandi conflitti sociali che l’hanno scossa. Oggi né l’ impresa né la società neoliberista così appaiono ai soggetti: di qui l’anomia. Di qui l’angoscia, di qui il non riconoscimento dell’altro dialogante e operoso per la salvezza. Anche qui emerge la riprova che l’economia altro non è che una serie di comportamenti personali, e che i mercati non esistono se non come aggregazioni, spontanee o regolate, di comportamenti umani. La società rinnova continuamente la comunità anche in economia. Se ciò non accade le conseguenze possono essere tragiche.

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1 commento

  1. Stefano

    Immagino che questo fosse un bell’articolo, e l’argomento è di sicuro interessante. La prossima volta vi prego di scriverlo in italiano, mi sarebbe piaciuto capirlo meglio. Senza polemica: è davvero incomprensibile ai più….

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