Salvarsi coi padroni o andare a picco con la Fiom? Grugliasco (Torino), i destini paralleli di due aziende in crisi
«Dove non c’è lavoro, manca la dignità». Lo ha detto papa Francesco a Cagliari nel settembre scorso, incontrando i disoccupati e i cassintegrati sardi. È esperienza quotidiana, in questa crisi, fare i conti con il dramma del lavoro che non c’è. La realtà consegna dunque ai sindacati una grande responsabilità. Una responsabilità che chiede, però, di cambiare necessariamente i paradigmi dell’azione e le categorie culturali. Il rischio, altrimenti, è quello di combattere una battaglia tutta ideologica, dove la concretezza del lavoro e dei lavoratori scompare e i loro rappresentanti diventano di conseguenza un freno all’innovazione, anche in termini di contratti. Il sindacato che, in Italia, ha imboccato l’involuzione a forza conservativa, avviluppato in una logica redistributiva tutta giocata nell’immediato e a favore dei lavoratori già “garantiti”, è la Cgil. In particolare la Fiom. Ce ne sarebbe abbastanza per dare ragione al populismo di Coluche, antesignano francese di Beppe Grillo: «I sindacati sono stati fatti per dare ragione a della gente che ha torto».
Torino è un buon punto di osservazione (e di comprensione). Una Torino che – al di là della retorica sulla “nuova via” della sinistra subalpina, che vanta una organica saldatura ai salotti borghesi e da un buon ventennio mantiene saldamente il timone della città – si trova a fronteggiare il “rischio declino”. Una parola che, rimbrottato dal sindaco Piero Fassino, l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha pronunciato in due ultime omelie in occasione della festa di san Giovanni, patrono della città. Un messaggio tradizionalmente volto alla comunità nel suo complesso. Il declino si può scongiurare solo uscendo dalle vecchie logiche. Una sfida che per Torino ha assunto il volto di Sergio Marchionne e del suo affronto al “mito della concertazione”.
Torino è la città italiana a cui, più di ogni altra, tradizionalmente si pensa quando si parla di lavoro in fabbrica. La Torino della Fiat e del suo indotto. La one company town. In questa Torino, per la verità sempre meno operaia, è andata per la maggiore, prima della crisi mondiale che ci sta segnando, la narrazione di uno sviluppo tutto post-industriale. Una realtà di servizi, di cultura e di turismo. Con i grandi complessi industriali abbandonati a disposizione delle mire degli immobiliaristi. Le Olimpiadi 2006 sono state la vetrina di questo che si è rivelato essere solo un sogno. Perlomeno, una strada che non può essere quella maestra.
Dall’altra parte, opposta retorica, l’operaismo telegenico della Fiom. Figlio, o come minimo parente, di quella contrapposizione sindacale che nel 1980, a furia di picchetti e occupazioni, portò per reazione alla più celebre delle manifestazioni dei colletti bianchi: la marcia dei 40 mila. Una strategia sindacale da cui non a caso il resto della sinistra, secondo la “regola dei trent’anni”, ha ormai preso le distanze. Un sindacalismo, quello della Fiom, malato di ideologia.
Diecimila Maserati
Mirafiori, lo storico stabilimento Fiat di Torino, impiegava all’inizio degli anni Novanta ancora circa 50 mila dipendenti; oggi ve ne sono circa 12 mila includendo i cosiddetti “ terzisti”, ovvero le persone che vi lavorano dipendendo però da altre aziende. Numeri impressionanti con cui tuttavia qualcuno sembra non avere intenzione di fare i conti.
Poi venne, appunto, Sergio Marchionne. Bestia nera per la sinistra sindacale old labour e banco di prova per quella riformista. Il manager che nel gennaio 2011 chiese ai lavoratori di Mirafiori di esprimersi, con un referendum, sul “modello Pomigliano”: investimenti in cambio di revisioni di orari e garanzie. Perfino Piero Fassino, all’epoca ancora candidato sindaco, disse: «Se fossi un lavoratore della Fiat voterei sì al referendum sull’accordo a Mirafiori. Dal no hanno da perderci solo i lavoratori». La Fiom naturalmente si oppose e sappiamo come è andata a finire.
Ma per capire appieno che razza di “scontro di civiltà” sia in corso nel mondo del lavoro italiano, ci si deve spostare a pochi chilometri da Torino: a Grugliasco. Qui, lungo il medesimo corso Allamano, si trovano due stabilimenti, entrambi colpiti a morte dalla crisi del mercato, la cui sorte, dopo le operazioni di “rilancio”, è stata perfettamente opposta. Con fortune inversamente proporzionali all’invasività delle vecchie logiche sindacali. In un caso il salvataggio è riuscito, nell’altro è svanito. Parliamo della Bertone, dove ora si producono due modelli di Maserati (con l’obiettivo di connettere la fabbrica a Mirafiori nel “polo unico del lusso”), e della De Tomaso-ex Pininfarina, la quale, dopo investimenti stratosferici di denaro pubblico, in assenza di fatti nuovi, il 4 gennaio prossimo andrà incontro a un destino inesorabile: il licenziamento di tutti gli addetti.
Nello stabilimento della Bertone si lavora. Dopo sette anni di cassa integrazione, con il corollario di tavoli e promesse. In quella che era una roccaforte della Fiom, gli stessi delegati dei metalmeccanici della Cgil hanno sconfessato la linea di Landini e hanno accolto le richieste che la Fiat poneva per l’avvio della nuova produzione. Qui i lavoratori iscritti al “sindacato rosso” erano sette ogni dieci, però, quando si votò il referendum “à la Marchionne” sulle nuove condizioni di lavoro e contratto, tutte le rappresentanze di base si schierarono per il sì. I vertici dovettero cedere al “liberi tutti”. E il 30 gennaio di quest’anno si sono avviate le linee. Quasi tutti i 1.096 addetti sono rientrati in servizio e la Fiat, dopo un miliardo di euro di investimenti, vi ha prodotto diecimila Maserati, tra Quattroporte e Ghibli. Auto di lusso, circa 111 mila euro la prima e poco meno di 70 mila la seconda. Auto, in gran parte, prodotte – il superbollo italiano non è certo un alleato – per il mercato straniero: Stati Uniti e anche Cina, dove la casa automobilistica ha sempre faticato ad inserirsi. La scommessa e lo scarto dalla linea ideologica qui hanno ripagato chi li ha accettati, visto che la produzione è il doppio di quella degli impianti modenesi, dove la Macerati è nata.
Un flop da 60 milioni
Dalla De Tomaso, invece, è uscita un’unica vettura. Costo: circa 60 milioni di euro. L’azienda, acquisita dai Rossignolo, ora alle prese con l’incriminazione per distrazione di fondi pubblici, ha realizzato solo il prototipo della Deauville, pomposamente presentato al Salone dell’Auto di Ginevra. Sempre vagheggiando l’arrivo di mai concretizzatisi “soci stranieri”, ora indiani, ora cinesi.
L’impresa parte alla fine del 2009, quando, in seguito a un patto tra Regione Piemonte e famiglia Rossignolo, l’ente governato da Mercedes Bresso (centrosinistra) acquisisce gli ex capannoni della Pininfarina per 15 milioni di euro e li assegna in locazione a De Tomaso. Successivamente, il Piemonte stanzia altri 7,5 milioni per avviare l’innovazione all’interno dello stabilimento. Rossignolo fornisce giustificativi per oltre 6 milioni, evitando di chiedere l’ultima tranche, che secondo quanto previsto dalle leggi regionali avrebbe imposto una valutazione complessiva di tutto il progetto. Poi arriva la formazione professionale e lo Stato mette a disposizione 20 milioni per la sicurezza sul lavoro: l’azienda dei Rossignolo riesce a incassarne solo 7, perché poi inizia l’inchiesta e con essa gli arresti dei vertici, a partire dal patron Gian Mario Rossignolo. Intanto, la De Tomaso smette di pagare a Finpiemonte Partecipazioni, la controllata della Regione che ha in mano gli stabilimenti, la sua quota di affitto: un debito di 600 mila euro. Insomma, tra investimenti e stanziamenti, sono serviti 30,1 milioni circa per far partire la De Tomaso. Senza contare i soldi della cassa integrazione per circa 900 dipendenti (25 milioni) e i 2,6 milioni giunti grazie al Feg, un fondo per l’adeguamento alla globalizzazione.
Il tutto con un sostanziale accordo bipartisan all’insegna della spesa pubblica. E, come ha più volte denunciato la Fim Cisl, con «una paradossale indulgenza verso i vertici di De Tomaso di un sindacato come la Fiom, così impietoso nei confronti di un manager come Sergio Marchionne».
Insomma, dove i lavoratori scelgono da protagonisti, anche accettando sfide non prive di sacrifici, il declino trova una diga efficace. Dove, invece, la “mano pubblica” si dimostra troppo attiva e generosa, si trovano solo mani svelte a incamerare risorse. Con il sindacato intransigente incredibilmente pronto a transigere. Bisognerebbe, forse, tornare ad ascoltare gli operai. Ma il vertice della Fiom è troppo occupato a esibire presunte partigianerie in difesa della Costituzione (la più bella del mondo ovviamente) e il proprio sostegno a quel movimento No Tav che a certi lavoratori non si fa scrupolo di tirare le pietre. Un sindacato che si fa partito, ma perde per strada i lavoratori.
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1 commento
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Sia l’ala oltranzista della Cgil ,sia certi comportamenti di Marchionne sono nocivi per la Fiat.