Lettere al direttore
Ritorno agli Esami di Stato
Sugli esami di Stato pesa uno strano destino: essi costituiscono la parte più importante dell’anno scolastico, la sintesi del percorso di studio della scuola secondaria di secondo grado, – le superiori – come la chiamano tutti, eppure avvengono alla vigilia delle vacanze quando un’aria di smobilitazione generale li travolge nell’oblio estivo, subito archiviati. Non ci si sofferma mai per un ripensamento, o una riflessione sul loro valore. Può essere che l’argomento ricompaia qualche mese più avanti, sotto forma di numeri in aride statistiche, ma di fatto sarebbe solo una riesumazione frettolosa e momentanea.
Quest’anno, gli esami, li ho vissuti indirettamente, accompagnando in modo discreto, dietro le quinte, i miei studenti che avevo lasciato lo scorso settembre, dopo quattro anni, per andare in pensione. Gli esami appena conclusi sono stati un’edizione particolare. Il loro drastico ridimensionamento e ‘aggiustamento’ per Pandemia da Covid 19 li aveva completamente stravolti.
Il primo giorno degli orali, i corridoi della scuola erano silenziosi, presidiati da bidelli attenti ad allontanare gli studenti dalle aule riservate per i colloqui. «Che vuole, profe! Il presidente di questa commissione è molto severo, non vuole nessun tipo di interferenza. L’altra presidente è più gentile».
Soprattutto il primo giorno, con entrambe le mie classi a cominciare la loro prova finale, la tensione era alta. Studenti e studentesse si sono mostrati molto compresi del momento particolare che avrebbero vissuto, appropriati nell’abbigliamento e seri nell’atteggiamento. Li ho guardati con ammirazione e stupore: erano davvero cresciuti! Ho ripensato alla prima ora di lezione nella 1^ A e nella 1^ B. Ricordo molto bene. Anche loro del resto. In entrambe le classi avevo iniziato con un brano tratto dal romanzo Cose che nessuno sa di Alessandro D’Avenia. Avevo promesso loro che li avrei accompagnati fino alla conclusione della quinta. Così non è stato, purtroppo. Avrei voluto mantenere la mia promessa, ma – come dice Dante – il volere può essere “reciso” dal non potere. Ero commossa pensando a quanto fossero cresciuti. Li avevo lasciato ieri ed ora erano pronti a spiccare il volo. Per questo ero lì a sostenerli come potevo, con la mia presenza.
Nutro molti dubbi sul valore di questi esami, relativamente all’impostazione. Tuttavia, essi costituiscono un’occasione per permettere agli studenti di rivelare il loro modo di pensare e, se lo volessero, anche un po’ di sé stessi. Le indicazioni ministeriali insistono sulla padronanza della lingua italiana e sulle competenze culturali in senso lato. Nonostante tali raccomandazioni normative, il colloquio, a secondo delle interpretazioni dei commissari, può variare da domande di carattere nozionistico, cosa frequente nei licei, a richieste di esprimere proprie opinioni su argomenti di attualità. La cosiddetta domanda stimolo per iniziare l’orale, chiedendo agli studenti di proporre possibili collegamenti interdisciplinari, si rivela un metodo piuttosto deludente. Gli “agganci” fra contenuti sono il più delle volte forzati e labili, quando non semplicemente giustapposti per cronologia.
Questo accade, a mio modesto parere, perché non si parte da una quaestio, da un problema, da una questione appunto, ma dai titoli parziali che segnalano i diversi capitoli di un libro di testo. Appare, inoltre, contraddittorio chiedere agli studenti quello che neppure i docenti hanno acquisito come habitus mentale, vale a dire il fatto di considerare che l’interdisciplinarità nasce dai contenuti stessi e non è un’operazione da sovrapporre in modo fittizio. La realtà, infatti, è unitaria alla radice. Pertanto, occorre osservare gli oggetti da conoscere e lasciarsi suggerire i legami di cui essi sono costituiti. Invece, di norma, ogni docente si mantiene nell’hortus conclusus della propria disciplina e con difficoltà abbandona la prospettiva parziale che la connota. In tal modo però sfugge quella visuale unitaria che fa sintesi delle diverse angolazioni e si avvicina così alla verità della cosa.
Non resta che sperare e lavorare negli ambienti di riferimento affinché cominci a cambiare la pratica didattica ordinaria nel senso di farsi più aperta ai contributi che dalle diverse aree possono provenire alla soluzione di un problema e – perché no – riscoprire il metodo della lectio medioevale che nelle università vedeva impegnati magistri e clerici, appassionati e desiderosi di trovare insieme una soluzione.
Maria Giovanna Fantoli
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