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Attento Renzi, «Roma non è Parigi. Se tardiamo ancora a fare le riforme saremo commissariati»

«La minaccia di non rispettare i vincoli sul debito non farà cambiare idea alla cancelliera. L'austerity si supera liberando le imprese, non bluffando come Parigi». Intervista a Francesco Forte

Matteo Rigamonti
04/10/2014 - 4:00
Economia
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L’obiettivo del pareggio di bilancio, vero e proprio mantra dell’austerity targata Angela Merkel si allontana sempre più all’orizzonte. La Francia non lo raggiungerà prima del 2019, ha dichiarato il presidente Francois Hollande, dopo aver annunciato che quest’anno il suo Paese nemmeno rispetterà il vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. E il primo ministro Matteo Renzi ha spostato l’obiettivo del pareggio di bilancio per l’Italia al 2017, perché la crisi è ancora lungi dall’essere stata messa alle spalle, pur essendosi impegnato a rispettare il tetto del 3 per cento a fine anno. Renzi, inoltre, ha colto l’occasione per solidarizzare con Hollande («io sto con lui», ha detto), mentre ha preso le distanze dalla cancelliera tedesca, che, a suo avviso, non può trattarci «come studenti» cui affidare i «compiti a casa». «È vero, le riforme dobbiamo farle», spiega a tempi.it l’ex ministro delle Finanze Francesco Forte, «ma non dobbiamo commettere l’errore di pensare che possiamo trattare con la Merkel sullo stesso livello della Francia. Roma non è Parigi, e Renzi dovrebbe capirlo se non vuole che il Paese corra il rischio di essere commissariato».

L’Italia può comportarsi come ha fatto Parigi con Bruxelles?
Occorre distinguere, perché la situazione della Francia è completamente diversa da quella dell’Italia. Parigi, infatti, oltre ad avere un debito pubblico nettamente più basso del nostro, ha anche un tessuto industriale poderoso, tanto che ha fatto incetta di aziende in Italia e altrove, ma soprattutto il suo sistema bancario e finanziario è in salute, forse addirittura più di quello tedesco. La produttività per ora lavorata, poi, è elevata e la Francia, oltre a una bassa quota di importazioni, ha un surplus energetico tendenziale positivo, come pure quello agricolo. Certo, Parigi di riforme da fare ne avrebbe eccome, ma non è la stessa cosa. Siamo noi che non possiamo permetterci di rimandare ulteriormente le riforme di cui il Paese ha sempre più urgente bisogno.

La cancelliera, però, ha bacchettato anche il presidente francese, non solo l’Italia…
È  così, ma la Francia gioca su un piano diverso: loro hanno un notevole sistema di difesa militare, che la Germania non ha, hanno l’energia nucleare, le ex colonie su cui fare affidamento, hanno la politica estera e rappresentano un’interlocutore privilegiato per gli Stati Uniti più di quanto non lo sia la Germania. E non è un caso se l’Unione Europea è stata costruita sull’asse Parigi-Berlino; anche la Pac, la politica agricola comune, del resto, è stata tagliata su misura per la Francia. Parigi, insomma, può seriamente minacciare l’uscita dall’Euro senza il timore di perdere la tripla A e sapendo che la Germania, invece, ne ha bisogno se vuole tenere insieme la moneta unica e il mercato comune. Noi, invece, paghiamo il prezzo di aver voluto entrare nell’Unione Europea a tutti i costi con Prodi, prima di aver messo i nostri conti in regola, tanto che oggi corriamo il rischio di essere commissariati.

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La Germania, che ultimamente ha fatto molto affidamento sull’export, deve anche lei fare i «compiti a casa» se vuole rilanciare i consumi interni?
La Germania ha registrato un notevole surplus nella bilancia dei pagamenti, ma presenta una serie di parametri che sono un po’ deboli, soprattuto se proiettati nel futuro. Si tratta di fragilità strutturali tipiche delle economie mature. È il caso, per esempio, del comparto dell’automobile, che indubbiamente rappresenta un fiore all’occhiello dell’economia tedesca, ma ormai sta diventando una commodity, ovvero un bene per cui c’è domanda sul mercato, ma che inizia ad essere offerto senza evidenti differenze qualitative sul mercato globale. Senza contare i delicati problemi che stanno incontrando alcuni istituti di credito tedeschi e il fatto che la Germania non possa contare su un suo sistema di “made in”.

Sta dicendo che anche a Berlino sentono la crisi?
Sto dicendo che stanno aumentando i malumori e quando accade la Germania dimostra tutta la sua fragilità e i suoi irrisolti problemi di coesione interna tornano a galla. Altrimenti qualcuno deve spiegarmi perché sta crescendo così tanto il partito degli economisti liberali che toglie seggi al partito della Merkel, perché si torna a dire che, siccome l’euro non è governabile, sarebbe meglio tornare al marco e perché la Merkel ha deciso di mettere Mario Draghi alla presidenza della Bce. Perché, forse ce lo siamo dimenticati, ma se Draghi siede all’Eurotower è perché la Germania l’ha voluto per fare ciò che la Merkel non ha voluto o potuto fare. A ciò si aggiunga quella strana “trappola” in cui Berlino si è andata a infilare votando le sanzioni contro la Russia, eppure avendo posto un tedesco come Gherard Schroeder a capo del gasdotto di Gazprom Nord Stream. Significa che proprio così bene anche loro non dovrebbero essere messi.

Tornando all’Italia, cosa dovrebbe fare Renzi?
Le riforme, in un’ottica liberale, proprio come è successo nel dopoguerra. Su questo hanno ragione Draghi e la Merkel. C’è poco da girarci intorno. Occorre liberare l’enorme ricchezza di cui ancora dispone il nostro Paese: abbiamo le piccole e medie imprese e le industrie ad alto contenuto tecnologico. Abbiamo anche le multinazionali, come Eni e Finmeccanica, e abbiamo il “made in Italy”. Geograficamente siamo in una posizione unica al mondo e abbiamo rapporti commerciali con la Russia a Est, l’Africa a Sud, ma anche il Sud America e gli Stati Uniti, con i quali oltretutto c’è una vicinanza culturale se non addirittura etnica. Se non avessimo sul groppone quel fardello che deriva dall’eredità comunista e cattocomunista che ritarda ogni decisione, il Paese avrebbe già potuto cambiare passo. Ma dovremmo liberarci anche di una certa modalità neocorporativa di gestire le relazioni di lavoro, oltre che della cultura giustizialista di certa magistratura che affossa ogni serio tentativo di cambiare il Paese. Infine, occorre risolvere l’annosa questione meridionale per cui a Reggio Calabria, con un salario da mille euro nemmeno si copre il costo del lavoro, ma si può tranquillamente vivere, mentre a Milano, con tutti quei soldi, quasi non ci compri nemmeno un orologio.

@rigaz1

Tags: angela merkelausteritybruxellescrescitadebito pubblicodebito pubblico italiadeficitdeficit/pilFranciafrancois hollandeGermaniaItaliamario draghiMatteo RenziPil
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