Referendum, la sbornia da firme digitali non fa bene alla democrazia
Cliccocrazia o svolta decisiva per la democrazia sui “temi ineludibili”? La facilità con cui – grazie alla possibilità di firmare online – la proposta di referendum sulla legalizzazione della produzione di cannabis per uso personale ha raggiunto le 500.000 firme necessarie per sottoporre il quesito a Cassazione e Corte costituzionale sta facendo discutere da giorni politici, costituzionalisti e promotori. È cosa buona e giusta? È un rischio? Bisogna cambiare qualcosa? Tempi ne parla con Filippo Vari, ordinario di Diritto costituzionale nel Corso di laurea in Giurisprudenza dell’Università Europea di Roma e vicepresidente del Centro Studi Livatino.
Più firme e stesso quorum
«All’epoca della riforma costituzionale promossa da Renzi avevo lanciato l’idea di rendere possibile il ricorso allo strumento digitale per l’iniziativa legislativa popolare», dice Vari. «Che si usino questi strumenti per raccogliere le firme è comprensibile e giustificato – sempre che l’autenticità della volontà dell’elettore sia effettivamente garantita – ma è innegabile che di fronte a una maggiore facilità nella raccolta delle firme è indispensabile elevare il numero di sottoscrittori necessario per proporre un referendum. Oltretutto dal 1948 è aumentata la popolazione, mentre il numero di 500 mila firme non è stato aggiornato alla crescita degli elettori».
Sul numero si può discutere, chiosa il professore, «possono essere 800 mila o un milione, si vedrà. Ma l’altra garanzia fondamentale è che il quorum per la validità del referendum abrogativo resti la maggioranza degli aventi diritto al voto e non, come alcuni propongono, la maggioranza di chi ha votato alle ultime elezioni politiche». La firma online tramite Spid è uno strumento che facilita la sottoscrizione, evviva, ma è una modalità che può «portare a un uso massiccio dello strumento referendario, trasformando la democrazia rappresentativa in una semidiretta», avverte Vari.
«Democrazia non è solo dire sì o no»
«Oggi la democrazia non può che essere rappresentativa, quella diretta presupporrebbe una riunione contestuale del popolo che discute e prende decisioni, oggi impossibile anzitutto per ragioni numeriche». C’è un equivoco in tal senso, probabilmente generato da anni di grillismo e candidature decise sulla piattaforma Rousseau: «La democrazia diretta non è solo dire sì o no a una proposta, ma anche discutere e riformulare la decisione da votare; ciò è impossibile nel referendum, che per sua natura finisce per dare un grande potere a chi formula il quesito» e può così anche incidere sulla risposta, soprattutto su temi complessi (si pensi a un referendum sul nucleare).
«Oltretutto c’è il rischio che si decida sì o no spesso su un’onda emotiva. I tedeschi dicono invece che “la democrazia ha bisogno di tempo”: le democrazie contemporanee si fondano su scelte complesse, spesso non fondate su un’alternativa secca – pensiamo alla legge di bilancio o allo spostamento dell’età pensionabile. Inoltre per essere prese con consapevolezza le decisioni devono essere approfondite. Per questo paghiamo lo stipendio ai parlamentari, perché se ne occupino in modo professionale. Come possiamo chiedere alle persone d’informarsi adeguatamente su numerosissimi quesiti referendari?».
Con la scelta binaria, fa notare Vari, «si possono favorire decisioni populistiche su temi complessi che mal si conciliano con lo strumento referendario. Non solo, la società tecnologica contemporanea è segnata dal fenomeno delle fake news, che rendono ancor più importante il carattere rappresentativo della democrazia».
E il referendum contro il green pass?
C’è chi sottolinea però che la facilità con cui la proposta di referendum sulla cannabis ha raggiunto le 500 mila firme indica uno scollamento tra popolo e suoi rappresentanti: «Il referendum dovrebbe essere un’eccezione, uno strumento di contropotere quando non c’è idem sentire tra governati e governanti. Un ricorso massiccio a questo istituto può farlo diventare uno strumento ordinario di legislazione e alterare il carattere della nostra democrazia. Ecco perché non è opportuno abbassare il quorum: per un evento così “grave”, in cui il governato si “ribella” alle scelte del Parlamento, occorre essere certi che la decisione sia espressione della maggioranza degli elettori».
C’è quesito e quesito, poi. Se infatti le proposte su eutanasia e cannabis hanno ricevuto un plauso unanime sui media e in larga parte dell’establishment, appena è uscita l’idea di raccogliere le firme per abrogare la legge sul green pass più di un sopracciglio si è alzato. Eppure, se mezzo milione di persone lo ritiene un “tema ineludibile”, bisognerebbe votare anche su quello. «Proprio l’esempio del green pass dimostra che non è possibile che una comunità gestisca il proprio quotidiano a colpi di sì e no», dice Vari.
«Mettiamo il caso che un referendum abolisca il green pass. Il giorno dopo che si fa? Sarebbero necessarie misure nuove e assai incisive, probabilmente anche più del green pass, per contenere la pandemia. Chiedere al popolo di esprimersi con un sì o un no secco su tematiche complesse e delicatissime come la vita o la salute mi lascia molto perplesso, anche per il rischio di manipolazioni dell’opinione pubblica. Anni fa, poi, si diceva giustamente che “la vita non si mette ai voti”».
Non basta la Corte, serve un argine culturale
E il ruolo di Cassazione e Corte costituzionale? Non sono contrappesi sufficienti? «Non è detto: il controllo della Cassazione è alquanto limitato e s’incentra sulla validità delle firme e sulla natura della normativa sottoposta a referendum; quello della Corte costituzionale si basa su parametri non sufficientemente stringenti, spesso fondati sul precedente più che su espresse previsioni della Carta costituzionale, e diventerebbe più difficile nel caso di un “bombardamento” di quesiti referendari».
Insomma, bene che la tecnologia aiuti la raccolta delle firme e che la gente voglia partecipare, ma l’asticella va alzata e non bisogna cedere alla tentazione rousseauiana. «L’argine più importante è culturale», conclude Filippo Vari. «La democrazia rappresentativa non è un minus rispetto a quella diretta, semmai è l’unica forma che risponde alle esigenze dei nostri tempi». Salvaguardiamola.
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