Alla “cliccocrazia” non servirà un governo. Le basterà un referendum

Di Emanuele Boffi
21 Settembre 2021
Record di raccolta firme digitali per il quesito sulla cannabis. I giovani finalmente si mobilitano per «temi ineludibili», dice Lagioia. Un abbaglio che rischiamo di pagare caro
Il segretario di Più Europa e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova alla manifestazione di +Europa sul referendum cannabis, con la senatrice Emma Bonino e Riccardo Magi davanti al Parlamento a Roma, 18 settembre 2021.
Il segretario di Più Europa e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova alla manifestazione di +Europa sul referendum cannabis, con la senatrice Emma Bonino e Riccardo Magi davanti al Parlamento a Roma, 18 settembre 2021

A voler andare subito al fondo della questione, il vero tema è quello che ha posto Matteo Renzi con una battuta: «Il rischio è che poi il maître à penser diventa Fedez».

Un passo indietro: sta facendo molto discutere la facilità con cui i radicali hanno raccolto le firme in favore dei referendum. Aiutati dal fatto che ora basta avere lo Spid per poter sottoscrivere i quesiti, in poche settimane hanno stabilito un record: 500 mila firme in 7 giorni per la legalizzazione della produzione di cannabis per uso personale.

I ragazzi più maturi degli adulti

Per i nostri giornali, questa novità apre scenari paradisiaci. Ad esempio, Repubblica ha intervistato lo scrittore Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino, che si è lanciato in uno smaccato elogio del fenomeno, soprattutto perché ad aver fatto impennare il numero delle adesioni sono stati i giovani. Cannabis più giovani è combinazione perfetta da quelle parti.

Per Lagioia i ragazzi sono più maturi degli adulti e più assennati dei politici perché vogliono dire la loro su «temi ineludibili». È grazie alla loro freschezza e caparbietà che – attenzione alle parole usate – «il referendum può essere un’occasione per affrontare queste questioni in maniera soggettiva e non emotiva. Perché l’ideologia, in certi casi, non serve a niente».

La solfa propagandata è chiara: lo strumento referendario serve a dare una mossa al parlamento che da anni discute su vicende delicate e divisive (cannabis, eutanasia), accelerando i tempi dei «temi ineludibili».

Ineludibilità buona e ineludibilità cattiva

Il giochino, però, dura poco, perché poi si pone il tema di cosa sia “ineludibile”. C’è una ineludibilità “buona” e una “cattiva”, par di capire. Se riguarda eutanasia e cannabis, è un conto, ma se parte la raccolta firme per eliminare il green pass, allora è “allarme democratico”.

(E ora, aperta e chiusa parentesi, provate solo a immaginare cosa accadrebbe se Tempi lanciasse la raccolta firme per togliere quel «senza oneri per lo Stato» a proposito di scuole paritarie. Secondo voi, Lagioia sarebbe dei nostri su un “tema ineludibile” come la libertà di educazione?).

L’impeto umorale

La vicenda, liberata dalla sue manfrine ideologiche, è in realtà più complessa e più seria e su questo sito l’ha già ben inquadrata Lorenzo Castellani (“Boom di firme digitali per i referendum su eutanasia e cannabis. Piano con l’entusiasmo”).

La procedura di raccolta digitale, ha scritto Castellani, è una «simulazione di quella che potrà essere la democrazia del futuro. Un grande assemblearismo digitale in cui le nuove masse virtuali rischiano di infrangersi sulle istituzioni legali. Oppure di travolgerle con l’impeto umorale della democrazia diretta».

Il bisturi del referendum

Il tema posto dal nostro collaboratore è quello centrale. Il problema non è, innanzitutto, se usare o meno lo Spid, ma quello di garantire che queste nuove modalità non eludano i percorsi istituzionali che, pur con tutti i loro difetti, sono la garanzia che le leggi e la Costituzione non vengano stravolte ogni volta da pulsioni passeggere.

Bene dunque ragionare su un innalzamento del numero delle firme o su altri strumenti che non rendano così semplice il ricorso al referendum che è sì uno strumento per raccogliere le istanze popolari, ma è anche un bisturi molto pericoloso da maneggiare. Come scrive sempre Castellani, il rischio è quello di operare su un corpo legislativo che ha in sé una sua coerenza e che, invece, con l’uso abrogativo del referendum risulti alla fine “bucherellato” e “incoerente”.

Non va persa la ratio che ha portato a prevedere il ricorso al referendum solo a certe condizioni. I paletti della raccolta di un alto numero di firme e l’ammissibilità dei quesiti da parte della Consulta hanno esattamente il senso di controbilanciare e limitare un intervento che può essere molto invasivo. Se con le firme digitali si salta a piè pari il primo step, rimangono solo Cassazione e Consulta.

Democrazia dei like

Soprattutto, ed è l’altro aspetto, il rischio è che a farla da padroni sia quella “democrazia dei like” stigmatizzata da Vladimiro Zagrebelski in un articolo sulla Stampa:

«La possibilità di firmare nella forma digitale, che in larga misura finirà per sostituire la forma tradizionale in presenza, accanto agli evidenti vantaggi che la rendono irreversibile, presenta anche i difetti che sono il contraltare delle nuove forme di partecipazione ed espressione. Esiste il rischio di facili firme digitali, simili a un qualunque improvviso ed emotivo like riferito all’occasionale intervento di un influencer, che lancia un prodotto».

“Cliccocrazia” grillina

Ieri il Giornale ha trovato il titolo per metterci in guardia da questo andazzo: “Cliccocrazia”. Vittorio Macioce ha notato il paradosso che, mentre assistiamo al tramonto del grillismo, vediamo anche il sorgere della sua vittoria.

«Il paradosso, semmai, è che proprio quando il Movimento si accartoccia in una crisi di identità, con Giuseppe Conte che si sente il capo di una succursale del Pd, la politica italiana si sta sempre più “grillinizzando”. Qui non c’entrano i valori o le idee, ma le dinamiche. Come si riscrivono le leggi? Come si controlla chi governa? Quale è il luogo dove si confrontano maggioranza e opposizione? Come viene selezionata una classe dirigente? L’impressione è che ci si stia avvicinando a una forma incompiuta di democrazia diretta. È qualcosa di ibrido e piuttosto confuso, che non piacerebbe probabilmente neppure a Jean Jacques Rousseau».

La tragica fine della politica

Sarebbe, davvero, la conclusione tragica di una parabola iniziata trent’anni fa con Tangentopoli: lo screditamento totale della politica, delle sue procedure e dei suoi rappresentanti, ridotti a orpello di decisioni o calate dall’alto, secondo gli interessi di alcuni mai votati da nessuno, o dal basso, in base a pulsioni che riflettono la narrazione di minoranze rumorose e in sintonia col pensiero dominante.

Questo storpiato senso di democrazia diretta ci porterebbe a enfatizzare una tendenza che già oggi vediamo in atto e per ora controbilanciata, seppur malamente, da alcune misure di contenimento. Così, invece, la politica si trasformerebbe definitivamente in infotainment e le leggi si ridurrebbero non a compromesso ragionevole tra interessi e valori, ma a punto d’instabile equilibrio tra volatili emozioni del momento.

Foto Ansa

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1 commento

  1. ALDO GIACCA

    Bisogna tornare al buon senso. Ragionare con la testa in favore e a vantaggio della comunità.

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