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Papabili, outsider e boutade. Ecco tutte le nomination per il Quirinale. E le forze che le sostengono

Paura, risentimento, emergenza, catastrofe incombente. Sono questi gli umori che prevalgono in Parlamento e dai quali emergerà il nuovo presidente della Repubblica

Lodovico Festa
25/01/2015 - 5:00
Politica
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È complicata l’elezione presidenziale: il barocco profilo della carica attribuisce e non attribuisce funzioni, separa e non separa i poteri, affida e non affida responsabilità. Anche nel definire questa istituzione è stato decisivo il terrore da passato fascista e poi da Guerra Fredda con bilanciamenti istituzionali più da paralisi e sovrapposizione che da distinzione di ruoli e poteri, determinando tra l’altro aree di influenze non trasparenti di corpi dello Stato e sistemi di alleanze internazionali.

Grazie a Guerra Fredda e Dc i conflitti istituzionali – pur presenti con i casi Gronchi nel ’60, Segni nel ’64, Leone nel ’78 e Cossiga nel ’89 – si sfumarono. E alla fine l’espressione della sovranità popolare via Parlamento limitò tentazioni dirigistiche dall’alto.

Ma con la fine del contesto storico sono esplose le contraddizioni della Carta e il Quirinale ha prevalso sulle istituzioni della sovranità popolare esasperando il peso di corpi separati con Oscar Luigi Scalfaro, l’egemonia tedesca con Carlo Azeglio Ciampi e eccessi d’interventismo americano-tedesco più finanza globale con Giorgio Napolitano. Negli ultimi anni tale deriva ha provocato un certo commissariamento della sovranità popolare. Oggi il Parlamento in carica è delegittimato dall’Alta Corte e comprende forze politiche disgregate contagiando così sia la base della politica (come sindaci e regioni) sia quella socio-culturale (si considerino i corpi intermedi).

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Da qui una devitalizzazione della politica rispetto alla Prima Repubblica. Nella Seconda un bipolarismo pur rozzamente organizzato aveva consentito alcune spinte unificanti e partecipate: certo in un quadro in cui forze sistemiche (interne ed estere) hanno consentito solo al polo di sinistra di esprimere la presidenza della Repubblica. Poi si è arrivati a un collasso anche di queste pur inadeguate “spinte”: la lotta per il Quirinale del 2013 ha mostrato lo spappolamento in atto con tanti parlamentari motivati essenzialmente da logiche individuali o al massimo di nomenklatura. Oggi l’unico elemento un po’ unificante è la paura: sia per i destini dei singoli sia – nei casi migliori – per le sorti della nazione.

Nella Prima Repubblica – ma anche nella prima fase della Seconda – la scelta per il Quirinale si basava al fondo su visioni generali e anche per questo motivo si arrivava a poche candidature. Adesso primeggiano gli istinti tribali.

Difficilmente la pura paura crea efficaci dinamiche unificanti perché anche quando aiuta decisioni utili, produce insieme un degrado di lungo periodo (come i grillini) della democrazia. Certo, è realistico sperare che la paura (con annesso minimo di senso di responsabilità) consigli scelte ragionevoli, sia pure di male minore, rispetto al prevalere di risentimenti particolaristici. E oggi, se si sceglierà un presidente adatto ad accompagnare i tentativi – pur con scarsa visione – riformistici in corso si terrà aperta una via – non facile – a veri cambiamenti. Se si arriverà invece coi risentimenti, ad assetti diarchici, si aggraverà una situazione già complicata.

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I possibili vincenti
Per analizzare le possibili candidature vincenti oltre ai due scenari primari (da “paura” o “risentimento”) vanno considerati pure quelli “da emergenza” e da “catastrofe incombente”. Il primo vero candidato da scenario da paura è Pier Carlo Padoan sostenuto da Mario Draghi (a cui serve un interlocutore sicuro in Italia) e da un accordo con Carlo De Benedetti a cui è stato pagato il primo prezzo di Tito Boeri all’Inps e, forse, data qualche opzione sul futuro ministro all’Economia. Ha una sponda nei dalemiani (ma suscita l’invidia di Vincenzo Visco). Non spaventa Silvio Berlusconi ma inquieta i residuati di potere italico che si sentono emarginati. Non per nulla il pasticcetto del cosiddetto salva Berlusconi (tramutato in un affossa-Padoan: questi difeso peraltro strenuamente da Repubblica) è stato svelato dal Messaggero e cavalcato dal Corriere della Sera. La scelta Padoan prevede una variante: Ignazio Visco.

Principale candidato del risentimento è Romano Prodi, sostenuto da tribù di destra e sinistra ostili al patto del Nazareno. Ha qualche chance se nelle prime votazioni sarà indicato da un numero assai alto di dissidenti di tutte le bande: in tal caso sia Renzi sia Berlusconi potrebbero voler evitare di essere sconfitti e cavalcare chi li doveva sconfiggere. Però se il professore bolognese voleva acquisire una nuova figura da pacificatore doveva muoversi prima per smentire un passato che poco conforta: tutta la sua esperienza politica si è svolta sotto il segno di un permaloso risentimento che lo rende poco affidabile per la gestione di una diarchia. Ed è stato già sperimentato con risultati deludenti in ruoli di supervisione della politica: la sua presidenza della Commissione europea è stata magari apprezzata dai tedeschi ma non può esserlo dagli italiani. L’unico vero candidato possibile dei risentiti non mi pare abbia grandi chance di riuscita: l’investitura datagli da Pier Luigi Bersani pare – in chiave di riavvicinamento con Massimo D’Alema – più che altro un boicottaggio.

La fila degli ex Pci
Altri candidati da paura si trovano nelle file degli ex Pci in chiave renziana per responsabilizzare il Pd: Walter Veltroni (appoggiato da Gianni Letta, Ferruccio De Bortoli, dall’un tempo ostile giro Caltagirone), Piero Fassino (sostenuto dal mondo Fiat-Agnelli), Anna Finocchiaro (esponente di un’area violantiana che attira – per i suoi “pentimenti” – e spaventa – per i suoi “collegamenti” coi magistrati – come si è visto recentemente nel voto per i giudici costituzionali). L’indicazione Bersani è una boutade: quando ha svolto ruoli para-istituzionali, ha esibito uno stile da ispettore Clouseau. Contro Veltroni c’è lo scandalo sul giro criminale romano avviatosi lui “consule”: e il potere della procura di Roma pesa. Si tratta di vedere se gli scandali verranno rinfrescati, perché se ne sono lanciati così tanti (Amato, Pinotti, Veltroni, Padoan) che alla fine l’uno oscura l’altro. Tra gli outsider ex Pci potrebbe spuntare Giovanni Legnini così abile al Csm (dove appena è stato ritenuto candidabile gli sono stati organizzati dei trucchetti).

Un candidato da paura potrebbe venire dagli ex Dc del Pd: la dissoluzione tribale è tale che gli ex Pds quarantenni preferirebbero uno sfumato ex Dc a un ex Fgci anni Settanta pronto a comandarli di nuovo. Ci sarebbero così spazi di manovra per Sergio Mattarella, Graziano Delrio (utile per dividere i prodiani), Dario Franceschini e via declinando. Pare tramontato Paolo Gentiloni che un po’ serve dove è, un po’ non è ancora decollato. Con un ex Dc a Palazzo Chigi quella di un ex Dc sul Colle è solo la terza scelta tra quelle da paura.

Si vocifera di una candidatura di Pier Ferdinando Casini. Ha collegamenti internazionali preziosi, articolate esperienze istituzionali, forti legami col potente sistema Roma. Avrebbe un qualche significato di riequilibrio: un presidente (quasi) di centrodestra dopo tanti di centrosinistra. E potrebbe contare sulla paura – da scioglimento delle Camere – dei peones. Poche le chance di riuscita: troppe persone a sinistra (ma un bel po’ anche a destra) non lo voterebbero. Una sua improbabile riuscita aumenterebbe, peraltro, una sensazione di autoreferenzialità della politica (il vero peccato napolitaniano) alimentando un’irrazionalità già assai diffusa.

I magistrati candidati
Se dalla paura o dal risentimento si passerà al panico per caos incombente, forse prevarrà una scelta di emergenza. Gli outsider sinora lanciati non convincono (da Emma Marcegaglia a Franco Bassanini, da Elena Cattaneo a Riccardo Muti: troppo lontani dalle tribù parlamentari che decideranno). In caso di panico post quarta votazione (ma anche panico che induce a un “accordo per la prima”) si finirà per rivolgersi a un costituzionalista-notaio e, al di là di nomi di copertura (da Sabino Cassese a Ugo Di Siervo), è probabile l’“usato sicuro” (come Scalfaro, Ciampi e Napolitano) cioè Giuliano Amato, finora bruciato da Repubblica per favorire le manovre di De Benedetti. Peraltro detestato da un bel po’ di italiani (vedi tassa sui conti correnti del ’92): il che indebolisce la già fragile nostra politica. Garantisce però una gestione – pur magari al fondo disgregatrice come quella napolitaniana – professionale e capace di buone (sia pure molto subalterne) relazioni internazionali.

Se dall’emergenza si passerà alla pre-catastrofe le candidature sono due: con una supercrisi finanziaria (dopo il voto greco?) Washington potrebbe spingere Draghi a commissariare l’Italia ottenendo dai tedeschi – in cambio di una Bce meno autonoma da Berlino – concessioni sul patto per un mercato transatlantico: i tempi sono stretti ma le crisi divampano in un istante. Drammi sul fronte dell’ordine pubblico o della corruzione, potrebbero spingere al Quirinale – vedi osservazioni di Ugo Sposetti – un magistrato. Più probabile Raffaele Cantone (esorcizzato da Renzi: ma è segno della sua forza, non di debolezza) piuttosto di Pietro Grasso, già inadeguato presidente del Senato.

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