Terra di nessuno
Ninna nanna africana
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Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Milano, maggio. In un commissariato di zona, tra la gente in coda, c’è una giovane donna dalla pelle nerissima, con un neonato avvolto in un fagotto legato al collo. Si guarda attorno spaurita, fra i poliziotti in uniforme. Il bambino dorme. Dopo un po’ si sveglia, e comincia a piangere. Non sembra fame, ma un ciangottio borbottante che reclama carezze. La mamma si alza e prende a dondolarsi dolcemente sulle anche, in un movimento femminile e antico, e già il figlio si acquieta – cullato ancora come quando era in lei, nel buio del ventre.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Poi la ragazza a bassa voce, come intimidita da chi la osserva, intona una nenia in una lingua africana, che ripete sempre gli stessi suoni, in un’armonia dolcissima. Ninna nanna africana a Milano: la gente sta a guardare, intenerita, e quasi in soggezione.
Mi viene in mente un episodio di un vecchio libro di mio padre Egisto Corradi, Africa a cronometro (Corbaccio), il reportage di un rally automobilistico attraverso l’Africa del 1951. In un’Africa ancora coloniale, oggi inimmaginabile, mio padre in Congo belga incontra una famiglia di coloni occidentali. Sul lodge nella savana scrosciano le piogge tropicali, e si trascorre la giornata a chiacchierare. Mio padre a un certo punto – l’Africa, nella gran corsa del rally, gli scorre davanti tanto veloce da lasciargliene già la nostalgia – dice che gli piacerebbe ascoltare la ninna nanna di una mamma negra (allora si diceva così). La moglie del colono, una belga matura e madre di tre figlie, scoppia a ridere: «I negri non hanno nenie. Sono barbari, come vuole che le loro donne abbiano sentimenti materni?».
La signora sostiene che le madri nere, per far smettere di piangere i figli, li scuotono violentemente fra le braccia. Mio padre, incredulo, insiste, fino a convincere i suoi ospiti a raggiungere un villaggio vicino, e ad andare a vedere di persona. Il gruppetto di bianchi si presenta fra le capanne, e le donne, intimorite e meravigliate dalla richiesta tradotta da un interprete, esitano. Poi una si fa coraggio, e canta a bassa voce una tenera ninna nanna. «Cosa dicono le parole?», domanda mio padre. «Dormi, dormi, piccolino…», traduce l’interprete. Poi altre donne si mettono a cantare, in un coro di voci materne.
Nella stanza di un commissariato, a Milano, nel 2016, sorrido di quella domanda di mio padre, oltre sessant’anni fa, e un mondo intero di mezzo. La sconosciuta nera ha smesso di cantare e il bambino si è riaddormentato, rannicchiato contro il suo petto. Dormono tutti allo stesso modo. E piangono tutti allo stesso modo: come in un lontano film di Don Camillo il gran prete di Guareschi, in trasferta con Peppone in Urss, osservava, chino sotto a una finestra da cui veniva una ninna nanna russa. Piangono, dormono tutti allo stesso modo. Cosa che non è superfluo osservare, quando ogni giorno, nella nostra rassegnata indifferenza, di bambini così ne affogano in mare – come fossero creature da niente.
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