Muri, ponti e troni di spade
[cham_inread]
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) –Lunedì 17 luglio negli Stati Uniti ha preso il via la settima stagione de Il Trono di Spade. George R. R. Martin ha voluto svelare come è nata l’idea della sua travolgente saga: stava camminando in un bosco, quando si è imbattuto nella carcassa di un lupo. Da questa immagine è scaturito un intero universo fatto di creature fantastiche e soprattutto di individui che vivono e lottano per impossessarsi del Trono di Spade, forgiato con tutte le lame che sono state spezzate per conquistarlo. Un trono scomodo, che può persino ferire chi lo occupa incautamente.
Nel tempo, la storia si è sviluppata, evolvendo in un’acuta metafora dai meccanismi complessi e mutevoli. La grande attenzione che questa saga (ormai diventata a tutti gli effetti un prodotto trans-mediale) sta raccogliendo, ha ormai travalicato gli stretti confini di “genere” mandando forti segnali culturali e politici: ne hanno parlato The American Prospect, Foreign Policy e persino Foreign Affairs, che all’argomento ha dedicato ben due saggi (“Game of Thrones as Theory” di Charli Carpenter e “Game of Thrones as History” di Kelly DeVries).
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]All’esplorazione delle motivazioni profonde che spingono all’azione i protagonisti della serie tv è rivolto anche un volume dall’ambizioso titolo La filosofia del “Trono di Spade”. Etica, politica, metafisica, curato da Henry Jacoby (Ponte delle Grazie). Il primo dato su cui si sofferma il curatore è proprio la complessità dei personaggi che non sarebbero incastonati nel tradizionale schema del bene contro il male, ma presentano molteplici, problematiche sfumature che li avvicinano alla nostra quotidianità.
La lettura dei “grillini” spagnoli
Sul tema si è anche esercitata la classe dirigente di Podemos nel volume collettivo Vincere o morire. Lezioni politiche nel “Trono di Spade” (Nutrimenti). L’obiettivo, come ha affermato Juan Carlos Monedero (uno dei fondatori del movimento, uscito successivamente dalla formazione “morada” dopo uno scontro interno con Íñigo Errejón), sarebbe quello di «recuperare i racconti per tornare a parlare di chi comanda e di chi obbedisce». Quindi l’intento è quello di utilizzare una fiction che descrive, senza edulcorazioni, un mondo hobbesiano nel quale imperversano violenza, forza bruta, guerra, per definire la centralità del “politico” come condizione in grado di plasmare e soprattutto trasformare gli scenari. Una riflessione sulla ineluttabilità del conflitto come paradigm shift e contro l’immobilismo, la democrazia liberale, il neoliberismo. Errejón, che recentemente ha conteso la leadership del movimento a Pablo Iglesias, in questo senso è molto chiaro: «Il Trono di Spade rivela un’impronta politica, non tanto perché mostra la nuda verità che si nasconde dietro ogni “Sistema” strutturato, ovvero la sua propensione alla conservazione del potere e alla guerra, ma in quanto descrive come la lotta – per istituire un nuovo ordine – preceda e determini la possibilità e i confini del conflitto stesso».
La questione centrale che viene affrontata è di strettissima attualità e rimanda al tema del potere e della rappresentanza politica: chi deve governare i “Sette Regni”? Martin ci ammonisce che tutti dobbiamo essere vigili, combattere e tenere la testa alta (finché è ancora saldamente ancorata al nostro collo, vista la pericolosità mortale di questo “gioco”). Siamo quindi di fronte a una serie che contiene profondi riferimenti geopolitici e geosofici (nel senso del termine coniato a Berkeley nel 1947 da John K. Wright, con cui egli intendeva l’esplorazione delle immagini che le persone hanno degli ambiti geografici, cioè «dei mondi che si trovano nella mente degli uomini»).
Aprire le porte ai Bruti?
Esiste una chiara definizione spaziale: nord e sud – est e ovest. Potremmo persino arrivare a definire la grande “Barriera” (il Limes) come uno dei protagonisti stessi della narrazione, con un’interessante concatenazione di cause ed effetti che sembra sfuggita alla maggior parte degli osservatori, per lo più concentrati sul linguaggio esteriore. Nel Continente occidentale (Westeros), una parte della popolazione (i Bruti) è tenuta fuori dal consesso dei popoli civili proprio dalla Barriera protetta dalla Confraternità dei Corvi neri (a loro volta nobili decaduti, reietti e fuoricasta); ma in realtà la Barriera serve a proteggere i Sette Regni da un pericolo ancora più temibile: un’armata di non morti in grado di crescere a dismisura assorbendo tutte le creature che sconfigge sul suo cammino. Se i Bruti, nella loro alterità, anarchici, violenti e con costumi aberranti (alcuni praticano l’incesto e il cannibalismo), appartengono comunque all’umanità (per quanto primitiva), gli Estranei sono totalmete “alieni”. Nella sesta stagione abbiamo scoperto che questi ultimi, a loro volta, sarebbero stati involontariamente creati dai primi uomini (custodi dell’ordine naturale?) per difendersi dall’aggressione e dalle devastazioni delle genti civilizzate. Siamo forse di fronte a una reazione scomposta generata dai frutti avvelenati della globalizzazione, a “un ritorno di fiamma”?
La dinamica descritta da Martin è interessante: la civilizzazione devasta l’ordine naturale che, a sua volta, si ribella; la civilizzazione successivamente innalza muri per difendersi da ciò che è “fuori”; l’umanità esclusa preme alla frontiera per sfuggire all’orrore di guerre, distruzione e cambiamenti climatici (“L’inverno sta arrivando” è il titolo del primissmo episodio della serie).
Sulla Barriera, dopo un’epica battaglia difensiva contro questa immane migrazione di popoli, si svolge un serrato dibattito politico: i Bruti sono pur sempre esseri umani, per evitare che, raggiunti dall’esercito degli Estranei, diventino essi stessi morti viventi non sarebbe il caso di farli entrare, provando a integrarli (evitandone così la radicalizzazione)? Al centro di questo dibattito c’è Jon Snow (il bastardo?), comandante dei Corvi che, forse condizionato dal suo amore per la bruta Igrit, sarebbe per aprire i cancelli. All’inizio, le forze reazionarie, xenofobe (sovraniste?), sembrano prendere il sopravvento e Snow cade sotto i colpi inferti da un gruppo di congiurati ostili alla sua proposta ma, riportato in vita dal dio della Luce, il comandante dei Corvi dà corso al suo progetto politico, aprendo i cancelli e stabilendo nuove regole di convivenza con i Bruti. In un solo personaggio, Martin evoca sia Giulio Cesare che una sorta di Messia di matrice cristiana che muore e risorge.
Draghi di distruzione di massa
Nella settima stagione, tutti i pezzi sembrano posizionati sulla scacchiera in vista dello scontro finale. La regina Daenerys con i suoi draghi (le sue armi di distruzione di massa) è sbarcata sul Continente occidentale dopo aver sconvolto Esteros con una serie di guerre con cui ha profondamente mutato l’ordine precedente incentrato sulla schiavitù (un riuscito tentativo di esportare la “democrazia”?) e ha in mente un confuso progetto politico (di stampo trotskista?) enunciato nella stagione precedente: «Lannister, Targaryen, Baratheon, Stark, Tyrell, sono come raggi di una ruota. Prima uno poi un altro e un altro ancora. La ruota continua a girare schiacciando chi è sul terreno. Io spezzerò la ruota». Ma che cosa riempirà il vuoto generato dalla fine della Storia come brutale conflitto tra élite di paretiana memoria? Cosa seguirà alla distruzione di quest’Anello del potere?
[cham_piede]
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!