
La Messa non è finita. Cosa spinge 26 uomini a diventare preti cattolici in un mondo sempre più scristianizzato e appassito

In uno dei più bei romanzi di Graham Greene, Il potere e la gloria, si narra l’affannosa fuga di un prete dalla persecuzione anticristiana in Messico negli anni Quaranta. Si tratta di un sacerdote indegno, un prete spugna, un ubriacone, un fornicatore con una figlia, nata da un amore clandestino: «Non avevano messo amore nel concepirla, soltanto la paura e la disperazione e mezza bottiglia di acquavite». Quest’uomo, così incapace, così meschino, così poco all’altezza del compito cui è stato chiamato, è come “perseguitato” da Dio. Tutto il romanzo è un succedersi di errori e tradimenti eppur anche di fatti che costringono il pusillanime a rimanere prete, anche se lui non vuole, anche se lui se ne vergogna, anche se cerca di fuggire. Un uomo che è segno di Cristo, anche se non lo vorrebbe. È martire, pur non avendo nulla di eroico. Tanto che a un certo punto, quasi snervato da questa caparbia fedeltà di Dio alla sua vocazione, arriverà ad esclamare: «Sono un prete. Non dipende da me».
Con questa frase in mente, sabato mi sono recato a Milano all’ordinazione di un mio amico, Alberto. E pensavo: c’è davvero di che tremare a compiere un simile passo, a fidarsi di un Dio testardo, che nemmeno si abbatte e ci lascia stare, oltre ogni nostra umana incoerenza. Ci tampina. È un Dio geloso, dice la Bibbia. Il cardinale Angelo Scola ha detto nell’omelia che la scelta di Alberto e degli altri ventiquattro (più un religioso dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi) è stata una scelta lungamente meditata e verificata. Credo abbia ragione. O si presume che questi ventisei uomini siano tutti degli stolti e che siano diventati sacerdoti inconsapevolmente, per un moto dell’animo, per un desiderio etereo e senza ponderazione, oppure dobbiamo ammettere che quei 26 uomini abbiamo scelto di fare del rapporto con l’Altissimo il loro vincolo perpetuo. La domanda è dunque questa: perché lo hanno fatto?
La violenza di suor Cristina
Lasciatemela prendere alla larga, poi arrivo al punto. Come avrete visto tutti, suor Cristina Scuccia ha vinto il talent show The voice of Italy. Non interessa qui discutere se la ragazza abbia una bella voce o meno, se fosse opportuna una sua partecipazione al programma tv o meno, se quello sia un modo adeguato o meno di trasmettere la gioia della fede. Quel che qui si vuole segnalare è un commento trovato su un sito dopo che la ragazza, al termine della premiazione, ha recitato il Padre nostro. Ha scritto un utente: «È stato un momento di una violenza incredibile». È un’osservazione su cui val la pena di riflettere e, non per ultima, dovrebbe farlo Cristina stessa. Finché tu, suora, vestita da religiosa, ti dimeni su un palco con un microfono, sei accettata, applaudita, indicata come fenomeno globale. Appena, però, esci dal personaggio e fai quello che tutti si aspetterebbero da una suora (recitare una preghiera), diventi «violenta».
Esempio minimo di una percezione che abbiamo tutti. I sacerdoti e le suore godono di un generale rispetto nella nostra società. Più o meno tutti riconoscono loro una funzione sociale importante: si prodigano per gli indigenti, assistono gli anziani, badano ai bambini negli oratori. Opere straordinarie di carità sono nate e vengono gestite da religiosi: senza di loro, l’Italia sarebbe un posto peggiore. E questo glielo lasciamo fare, e gliene siamo grati. Il problema è quando qualcuno di loro richiama il motivo per cui fanno quelle cose: Gesù Cristo. Allora, appunto, diventa un problema, diventano «violenti». Quei 26 novelli sacerdoti ordinati sabato, forse che non sono consapevoli di tutto ciò? E, allora, di nuovo: perché lo hanno fatto?
Le isole dell’amore
Lasciate che vi tedii con un altro esempio un po’ balzano. Tempo fa, padre Piero Gheddo, sacerdote del Pime, ha pubblicato una lettera di un suo confratello missionario in Papua Nuova Guinea, padre Giuseppe Filandia. Il sacerdote ha raccontato la situazione sociale dell’arcipelago delle Trobriand, che gli etnologi chiamano «le isole dell’amore». Perché lì avviene quello che i più maliziosi tra voi hanno già intuito: «L’assenza di ogni regola morale nel rapporto uomo-donna si è quasi istituzionalizzata». I bambini praticano attività sessuali sin dai sette anni, anche tra fratelli. Alcune bambine, schifate da tali pratiche, «sentendo una naturale ripugnanza ad essere oggetto di piacere per i loro fratelli o per il loro padre, si suicidano gettandosi giù dall’alto di una palma da cocco». Le donne sono per lo più trattate come oggetti, gli uomini non avvertono alcuna responsabilità verso i figli che, anzi, si presume nascano non da rapporti sessuali ma da spiriti che si impadroniscono dei pensieri delle madri. Questa situazione di promiscuità e nomadismo sessuale è aggravata dai turisti occidentali che, come racconta padre Filandia, confermano agli indigeni che «in tutto il mondo si fa così».
In una situazione del genere, «si può capire – scrive il missionario – com’è difficile fare discorsi sulla purezza, la castità, sulla preparazione ad un matrimonio cristiano». Qualche piccolo-grande risultato lo si ottiene, ma il dato statisticamente più rilevante è l’insuccesso: «Tentiamo di organizzare corsi di formazione familiare per tutti, ma pochissimi rispondono al nostro appello. Cinquant’anni di cattolicesimo sono ancora pochi per cambiare la cultura tradizionale. Noi seminiamo senza la soddisfazione di vederne il risultato. Voi che avete la gioia di vivere in una famiglia cristiana, abbiate un pensiero e una preghiera per questo nostro popolo della Papua Nuova Guinea. Cari amici lettori, questa è una cultura non cristiana, non nelle cartoline turistiche, nei romanzi e documentari televisivi, ma nella concretezza della vita quotidiana di un popolo che ancora non conosce il Vangelo. E il nostro popolo italiano, che ha ricevuto il Vangelo da duemila anni, quanto è lontano da queste miserie “pagane”?».
L’Italia non è la Papua Nuova Guinea, è chiaro. Ma la domanda di padre Filandia è provocatoriamente interessante. Forse che anche ai 26 non potrà capitare di «seminare senza vedere il risultato»? D’altronde, anche i nostri 26 novelli sacerdoti sono coscienti di vivere oggi in una società che ha perso ogni fondamento cristiano, di cui la questione affettiva è solo l’epifenomeno più evidente. E quindi di nuovo e ancora: perché lo hanno fatto?
La stanchezza dell’Occidente
Al termine della funzione, il cardinale Scola ha detto che quest’anno nella diocesi milanese sono deceduti una cinquantina di sacerdoti. Se ventisei sono le nuove ordinazioni, fate un po’ voi i conti. Certo, come ha spiegato l’arcivescovo, «pochi o tanti, sono quelli che Dio ci dà», ma non è un mistero che, soprattutto nei paesi occidentali, di pari passo al calo delle vocazioni, si alza l’età media dei sacerdoti.
I numeri confermano che è soprattutto nei paesi occidentali che la Chiesa sente maggiormente il problema, al contrario di altre zone del pianeta. Secondo l’ultimo annuario della Chiesa cattolica (dati 2005-2012), il numero dei cattolici e dei sacerdoti cresce in tutti i continenti, ma è relativamente stagnate in Europa.
Se poi si vanno a guardare i numeri dei seminaristi, il dato diventa ancor più macroscopico. Se la cifra complessiva è aumentato del 4,9 per cento, passando dai 114.439 del 2005 ai 120.051 del 2012, questo lo si deve soprattutto grazie alla crescita asiatica (più 18 per cento), africana (più 17,6), dell’Oceania (più 14,2). Per farvi capire: in America si registra un calo del 2,8 per cento e nel Vecchio Continente del 13,2.
Un po’, insomma, viene da pensare che possa essere solo negativa la risposta al quesito che Fëdor Dostoevskij annotò sui taccuini di preparazione del suo romanzo I demoni: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?».
Segregati in seno al popolo di Dio
Eppure. Fatte tutte queste abborracciate premesse (e molte altre se ne potrebbero aggiungere) resta comunque, se non ancor maggiormente acuito, il dilemma: cosa ha spinto questi uomini a diventare sacerdoti? Scorrendo le loro biografie emerge un dato abbastanza sorprendente: si tratta per lo più di vocazioni adulte. Solo uno fra di loro, l’unico di 25 anni, è entrato in seminario dopo la maturità. Gli altri sono tutti trentenni o quarantenni e due oltre i cinquanta anni. Prima, hanno fatto altro: chi l’operaio, chi il grafico, chi l’ortopedico, chi il ferroviere, chi il bancario, chi l’avvocato, chi l’ingegnere aerospaziale. Uno, persino, è stato assessore nel suo paese.
Dunque, a chi fosse capitato di assistere alla Messa di ordinazione in Duomo sabato 7 giugno avrebbe avuto se non una risposta almeno un suggerimento alla domanda posta sulla decisione dei ventisei. Innanzitutto il luogo, la cattedrale, costruita nel corso di secoli grazie all’opera e alle offerte di un popolo, segno di una tradizione in cui queste vocazioni sono fiorite. Poi la celebrazione, segno che queste vite sono state formate, guidate e plasmate dentro un percorso che ha fornito parole e coscienza alla loro intuizione. Intuizione di cosa? L’ha detto Scola: «Se c’è una cosa che ci tiene uniti, che brucia di colpo ogni distanza, qualunque sia la nostra età, la nostra cultura, la nostra professione e condizione sociale, è il bisogno che Qualcuno si prenda stabilmente cura di noi».
Infine l’assemblea, tanto silenziosa, ordinata e attenta durante la funzione, quanto rumorosa, allegra e spensierata fuori dalle mura del Duomo nel momento di festa. Urla, cori, pacche sulle spalle, sorrisi, abbracci, per oltre un’ora sotto un sole pomeridiano che avrebbe scoraggiato chiunque, ma non quella gente riunita un sabato mattina d’estate per festeggiare i suoi preti. Allora queste ventisei ordinazioni non sono altro che la stella alpina cresciuta sul ciglio del burrone, su un terreno scosceso. Eppure. Eppure ci deve essere ancora qualcosa di vivo (e, forse, al di là di ogni analisi, di robusto) se fra noi qualcuno ha deciso di risalire la corrente.
Con una avvertenza, come ha spiegato sempre Scola: «Non sarete mai soli. Ogni cristiano non è mai solo: i presbiteri sono segregati in seno al popolo di Dio. Tutta la vostra vita si svolgerà in seno al popolo di Dio fratelli tra fratelli. E tutti i fedeli che sono qui si assumono oggi questa responsabilità di una compagnia santa alla vocazione santa del presbitero».
Ecco, ci siamo, e si torna all’inizio. Come scrive Graham Greene, non c’è altro scopo nella vita se non «diventare santi». Ma non si può diventare santi da soli. Vale per il sacerdote come per il laico. Queste ventisei vite dedicate sono come l’avvertimento di un compito che spetta a tutti e a ciascuno. Sono poche o sono tante ventisei ordinazioni? Sono ventisei. L’anno prossimo in seminario entrano in ventisette.
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2 commenti
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Perché oggi, quando tutto sembra remare contro, una persona decide di dedicare la propria vita a Cristo?
Perché è appunto quando tutto sembra remare contro che c’è più bisogno di affidarsi a Cristo.
“Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati” dice il Signore.
Questo è un tempo difficile, ma, proprio perché è un tempo difficile, è anche un tempo di Grazia, in cui i cristiani possono dare molto al mondo (a cominciare dalla propria testimonianza: pensiamo ai Martiri in Nigeria, il cui sangue si associa al Sangue di Cristo e feconda la Chiesa, pensiamo a Meriam, ad Asia Bibi, a Shabaz Bhatti, e pensiamo anche a coloro che in Occidente, dove non c’è – almeno per ora – il Martirio fisico ma c’è il Martirio “psicologico”, continuano a resistere agli assalti della “cultura dominante” e non si stancano di testimoniare Gesù in ogni ambito di vita).
I cristiani sono Sale della terra e Luce del mondo. Non ci devono spaventare la cattiveria o l’indifferenza del mondo (“Hanno perseguitato Me, perseguiteranno anche voi”), ma ci deve spaventare l’ipotesi del sale che perde sapore (cioè ci deve spaventare l’ipotesi di diventare cristiani insipidi, cioè incapaci di comunicare agli altri la bellezza di vivere in Cristo) e della luce che rimane nascosta (a che serve un cristiano che vive la propria Fede solo nell’ambito di una devozione privata, ma poi per il resto, per il quieto vivere, si adagia alle mode del mondo, che sono tutto fuorché cristiane?).
ma infatti, bravissimo. Lo schifo che va di moda è il voler relegare al solo ambito privato/personale la fede Cattolica, “scacciandola” beceramente da ogni ambito pubblico, sociale, politico… dove dà fastidio a quella masnada di sedicenti intellettualoni “colti e sensibili” nonchè feroci laicisti intolleranti.