Maryan Ismail: «Silvia Romano usata dal governo con cinismo sconfortante»
Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Quando ha visto Silvia Romano scendere dalla scaletta dell’aereo a Ciampino avvolta in un pesante hijab verde, la prima cosa che ha fatto Maryan Ismail è stata fermarsi e far sedimentare il turbinio di emozioni che le affollavano il cuore e la mente. Da una parte, la felicità per il ritorno della giovane cooperante milanese, rapita dai terroristi islamici di Al Shabaab il 20 novembre 2018 nel poverissimo villaggio di Chacama, in Kenya, dove svolgeva servizio di volontariato per conto della onlus marchigiana Africa Milele, e portata in Somalia, dove è rimasta in prigionia 18 mesi. Dall’altra, il dolore per come alcuni giornali hanno parlato degli Al Shabaab, considerati quasi alla stregua di ribelli, in realtà feroci tagliagole che il 27 marzo 2015 uccisero in un attentato suo fratello Yusuf Mohamed Ismail, ambasciatore della Somalia presso le Nazioni Unite.
Ismail, musulmana sufi, storica rappresentante della comunità somala italiana, nata a Mogadiscio nel 1959 e scappata con la famiglia in Italia come rifugiata politica, non poteva che guardare con sospetto anche i tanti imam italiani che si sono rallegrati per la conversione all’islam della giovane, avvenuta in cattività e annunciata all’arrivo in aeroporto. In una lettera aperta a Silvia, che ora chiede di essere chiamata Aisha e che ha avuto parole di ringraziamento per i suoi rapitori, Ismail si chiede «quale islam ha conosciuto? Quello pseudoreligioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? No, non è islam questa cosa. È nazifascismo, adorazione del male».
Per questa e altre parti contenute nella sua lettera, Ismail ha ricevuto accuse di ogni tipo. C’è chi le ha rinfacciato di non sapere nulla della Somalia, perché da tanti anni vive in Italia, c’è chi l’ha gabellata per un’etiope, una sionista, un’eretica, svelando le grandi divisioni all’interno dell’islam e l’ignoranza della politica, che troppo spesso non affronta l’estremismo islamico nel nome di una presunta e vuota libertà religiosa. «Io non ho paura di niente e continuo a dire quello che penso», spiega l’ex rappresentate della comunità somala in Italia a Tempi. «Alla violenza rispondo sempre con la forza delle argomentazioni».
Che cosa ha provato quando il 10 maggio scorso ha visto Silvia Romano scendere dall’aereo a Ciampino vestita con l’hijab?
Dolore e rabbia, perché ho pensato al mio paese, la Somalia, devastata da 30 anni di guerra, prima civile e poi jihadista. Conosco anche bene la zona dove è stata portata Silvia, un’area della savana impervia, arida e dura, dove è facile nascondersi ma anche farsi male.
Silvia ha ringraziato i suoi rapitori, gli Al Shabaab.
Conosco la ferocia della loro ideologia jihadista: è gente senza scrupolo, cinica, ma non superficiale o impreparata. Tengono in ostaggio da anni l’intera comunità somala, hanno esperienza sul campo e sanno come terrorizzare le persone, come radicalizzarle, come obbligarle a rispettare i loro dettami. Non sono semplici criminali, sono spietati tagliagole.
Crede alla “libera” conversione di Silvia?
Posto che, come ho scritto, anch’io nella sua situazione mi sarei convertita a qualsiasi cosa, no, non ci credo. Nella sua situazione la libertà era impossibile. È il Corano stesso a dire che non vi è costrizione in materia di fede, ma lei era in uno stato di costrizione, di pressione psicologica. Come poteva essere libera? Con chi poteva confrontarsi per essere aiutata a riflettere e comprendere l’islam?
Molti leader musulmani italiani hanno esultato per la sua conversione.
Io, da musulmana, lo trovo davvero improprio. Già solo il fatto che lei abbia detto che l’hanno trattata bene, fa capire che era in uno stato di pressione e costrizione, dove non poteva decidere liberamente della sua vita. E poi torno a domandare: quale islam ha conosciuto?
Aveva un Corano in lingua italiana.
Gli Al Shabaab possono anche averlo trovato a Mogadiscio, dove c’è davvero di tutto. Ma non dimentichiamo che ci sono tante interpretazioni del Corano. Nel testo sacro ci sono versetti di pace e versetti di guerra. Contestualizzarlo è fondamentale, altrimenti si tira fuori un versetto e gli si fa dire di tutto.
E gli Al Shabaab cosa gli fanno dire?
Che è necessario uccidere l’infedele con la spada, senza pietà. Ma nel Corano ci sono anche versetti di misericordia. Se però prendiamo l’esegesi dell’islam politico, che manipola il testo rendendo singoli versetti apodittici, è impossibile uscire da uno scontro sanguinario e violento. Anche alla luce di questo, mi chiedo quale islam abbia conosciuto Silvia e con chi si sia confrontata.
Lei ha ribadito che non rimprovera nulla a Silvia, vista la difficilissima condizione in cui si è ritrovata a vivere. Però la discesa dall’aereo con l’hijab verde non le è piaciuta.
Io infatti me la prendo con il governo, che ha agito con enorme superficialità strumentalizzando questa vicenda in modo cinico. Che il premier Conte e il ministro Di Maio si siano litigati Silvia per attribuirsi una “vittoria” in un momento drammatico come questo è sconfortante, è una delle pagine più buie della nostra Repubblica. Come hanno fatto a non pensare che dietro il sorriso di Silvia c’erano senza dubbio disturbi da stress post-traumatico?
Lei non l’avrebbe fatta riprendere dalle televisioni?
Assolutamente no. Quelle interviste e quelle immagini sono girate ovunque, anche nelle reti jihadiste, che hanno esultato dopo averla vista sotto quella tenda verde.
Non pensa che sia offensivo chiamare l’hijab “tenda”?
No, perché questa parola in arabo significa proprio tenda e non velo, che si dice khimar. L’islam politico ha sostituito l’hijab al velo proprio per mortificare le donne. Lo sappiamo bene noi somale, che abbiamo sempre amato vesti dai colori violentemente contrastanti, perfetti sotto il sole. Ma il colore è stato soffocato dai jihadisti nella mia terra e penso che il vestito di Silvia è stato accuratamente studiato.
Perché?
Perché portava un vero vestito africano, tutto variopinto, ma nascosto sotto l’hijab verde. Il messaggio era chiaro e non è un caso se le donne somale si sono spaventate nel vedere quelle foto, chiedendosi se quella di Silvia non fosse la nuova divisa che sarebbe stata imposta a tutte.
L’arrivo di Silvia in Italia, così come è stato organizzato, avrà una ricaduta in Somalia?
Ma certo. Conoscendo gli Al Shabaab, non fanno nulla di casuale. E i terroristi hanno sempre cercato di mortificare la mia terra.
In che modo?
La Somalia è sempre stata un paese musulmano, ma di un islam locale, sufico, completamente diverso da quello arabo wahabita o salafita, estremamente rigido e rigorista. Questa nuova religione ci è stata imposta verso gli anni Duemila, prima dall’Unione delle corti islamiche e poi da Al Shabaab. All’inizio le donne potevano ancora girare da sole per strada, in città, ma interamente velate di nero o marrone. Chi non si adeguava, veniva lapidata in strada da tribunali volanti. Anche gli uomini, per girare, dovevano farsi crescere la barba. Quando i somali si sono ribellati, è scoppiato il fenomeno jihadista, sono arrivati gli attentati e le bombe, insieme alla persecuzione di chiunque avesse un’istruzione: intellettuali, giornalisti, politici, diplomatici.
Tra questi, anche suo fratello.
Sì. La Somalia è al centro di tanti interessi per la sua posizione cruciale nel Corno d’Africa. Nella zona franca controllata oggi dai jihadisti passa di tutto: armi, droga, soldi riciclati. Gli Al Shabaab sono una holding del terrore che utilizza la religione e pertanto si crede intoccabile. Vorrebbero decidere loro chi è un vero musulmano e chi no. E noi siamo le prime vittime.
Che cosa avrebbe dovuto fare il governo italiano con Silvia per non fare pubblicità ai jihadisti?
Avrebbe sicuramente dovuto farla arrivare di notte, lontana dalle telecamere, spiegando che era stanca e prostrata; portarla poi a Milano, dalla sua famiglia. Solo dopo, fossi stata primo ministro, sarei andata a trovarla in visita privata a casa sua. E non posso credere che i nostri servizi non abbiano consigliato al premier di agire in questo modo.
Non è la prima volta che si scontra con l’incapacità della politica italiana di capire il pericolo dell’islam politico. Il 26 giugno 2016 scrisse una lettera aperta all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi che fece scalpore.
Ero iscritta al Pd e facevo parte della segreteria metropolitana milanese. Mi sembrava normale rivolgermi a chi guidava il mio partito.
Lamentava l’appoggio fornito dal Pd milanese alla candidatura dell’indipendente Sumaya Abdel Qader e in generale alla «parte minoritaria ortodossa e oscurantista dell’islam».
Sono stata denunciata due volte per diffamazione per quella lettera e per due volte ho vinto.
Che cosa rimproverava al Partito democratico?
Di aver fatto una scelta politica sbagliata. Quando si parla con l’islam, bisogna parlare con tutte le sue componenti, anche con le minoranze, perché il mondo musulmano non ha un papa, non ha una posizione unitaria. Il Pd, come altri partiti, non si rende conto che certe posizioni non derivano da un dogma religioso, ma da tradizioni particolari che correnti politiche all’interno dell’islam vorrebbero imporre a tutti i musulmani.
Può fare qualche esempio?
Fare indossare il velo a bambine non puberi non è un segno di appartenenza religiosa e il Pd, nel nome del relativismo culturale, scambia un simbolo politico per simbolo religioso. Ancora: il burkini non è una libera scelta della donna, ma un tentativo di una tradizione religiosa maschilista e patriarcale di sottomettere la donna. Siamo in tanti a ripetere queste cose, ma nessuno ci ascolta e così siamo discriminati due volte.
Perché?
Perché da un lato siamo vittime di islamofobia da parte di correnti islamiche che si rifanno alla Fratellanza musulmana e che accusano le donne come me di non essere musulmane. Dall’altro non veniamo ascoltate dalla politica perché siamo minoranza. Ma i partiti devono stare attenti ad appoggiare le correnti che si rifanno alla Fratellanza, perché è in quella cultura che affondano le radici del jihadismo.
È cambiato qualcosa dal 2016?
Non è cambiato niente, il Pd continua a sbagliare e non vuole rendersi conto che sotto l’obbligo del velo si nascondono spesso violenze domestiche, matrimoni forzati, combinati, eredità negata alle donne. Questi sono temi politici, non religiosi. Ne vogliamo parlare o facciamo finta di niente? Vogliamo finire anche noi con quartieri come Molenbeek in Belgio?
Lei come risolverebbe un tema spinoso e delicato come quello dell’apertura di una grande moschea a Milano, che da anni tormenta le amministrazioni cittadine?
Bisogna coniugare libertà di culto e sicurezza, cosa che il bando fatto a suo tempo dal sindaco Giuliano Pisapia per la costruzione di moschee a Milano non avrebbe permesso. Le moschee vanno costruite ma devono essere trasparenti.
Che cosa significa?
Una moschea è trasparente quando vi si può celebrare sia il rito sunnita che quello sciita, quando una scuola politica e religiosa non sottomette le altre. Ma lei lo sa che quando mio padre è morto a Bologna, negli anni Duemila, l’imam ha cercato di impedire alle donne di famiglia di andare al cimitero? Lo ha fatto per rispettare una tradizione della Penisola araba. Peccato che questa non sia una tradizione somala, dove invece donne e uomini partecipano insieme al rito funebre. In quel caso i miei fratelli e i miei zii si sono opposti, e così siamo andati insieme. E quando mia madre è morta nel 2017 c’erano anche i nostri amici cristiani e atei a pregare con noi. Quanti musulmani però sono costretti a sottomettersi?
Quali altre caratteristiche deve avere una moschea trasparente?
Non deve essere un luogo dove le donne sono soffocate. Devono pregare separatamente dagli uomini, ma possono benissimo stare alle loro spalle, non c’è bisogno di ammassarle in una stanza a parte. Io ho visto in Tunisia con i miei occhi comunità berbere dove le donne pregavano fianco a fianco con gli uomini. Qualcuno dirà che è un’eresia, ma è anche quello che succede durante il pellegrinaggio alla Mecca.
Se l’islam è diviso, come può la politica operare una sintesi efficace?
Innanzitutto deve dialogare con tutti e non solo con una parte. Pisapia calò dall’alto una scelta senza prima parlare con nessuno né dare dignità a tutti. Bisogna favorire il dialogo tra musulmani e trovare una formula di grande dolcezza in cui tutti siano rispettati allo stesso modo.
Lei è uscita dal Pd dopo che non è stata appoggiata.
Io non ho bisogno delle quote rosa. Io il mio spazio me lo prendo con la forza della ragione. Ora milito in Energie per l’Italia di Stefano Parisi e collaboro con Piattaforma Milano. Continuo a lavorare in politica perché solo la politica può risolvere questi problemi.
Foto Ansa
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