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La «libera» conversione all’islam di Silvia Romano e l’errore del governo

Mostrando la cooperante liberata dopo 18 mesi di prigionia velata e convertita, il governo ha fatto un enorme regalo ai jihadisti. Sulla sua adesione all'islam, basta leggere Quirico

Leone Grotti
11/05/2020 - 12:06
Esteri
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L’Italia intera ha gioito ieri per la liberazione di Silvia Romano. La cooperante di 25 anni è rientrata in Italia dopo un lungo sequestro durato 18 mesi per mano dei jihadisti di Al Shabaab in Kenya e Somalia. Un inevitabile turbamento ha colto molte persone Silvia è scesa dall’aereo a Ciampino in un ampio hijab verde, segno inequivocabile di conversione all’islam, così rivendicata dalla stessa Silvia poche ore dopo: «Sto bene fisicamente e psicologicamente. È vero, mi sono convertita all’islam. Ora mi chiamo Aisha, ma è stata una mia libera scelta. Non c’è stata nessuna costrizione da parte dei miei rapitori, che mi hanno sempre trattata bene».

QUELLE PAROLE SEMPRE UGUALI

Come nota giustamente il Corriere nella sua cronaca, «quest’ultima precisazione è un po’ un déjà vu. Così dissero Simona Torretta e Simona Pari, le volontarie della Ong “Un ponte per” rapite in Iraq nel 2004, dopo il rilascio. Così disse Daniele Mastrogiacomo, il giornalista rapito in Afghanistan, nel 2007, una volta liberato. E così, ora, anche la venticinquenne che però vuol smentire una conversione per amore o per costrizione: «Falso che sia stata costretta a sposarmi. Non ho avuto costrizioni fisiche né violenze».

«HO VISSUTO L’OFFERTA DELLA CONVERSIONE»

Mentre la Stampa nella cronaca si chiede se anche noi, ora, «dovremmo chiamarla Aisha», Domenico Quirico spiega in un bell’articolo come i jihadisti compiono pressioni all’apparenza sottili sui prigionieri per spingerli alla conversione e che cosa scatta nella mente dei sequestrati. La sua non è una testimonianza qualunque visto che l’inviato è stato rapito in Siria dai terroristi islamici il 9 aprile 2013 e liberato solo cinque mesi dopo l’8 settembre. Scrive a proposito della presunta “libertà” lasciata dai rapitori a Silvia «in una dimensione che, non bisogna dimenticarlo mai, è quella della violenza, del ricatto»:

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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«Conosco il rito dell’offerta della conversione: per averlo vissuto. Comincia con una proposta, gentile: quella di cambiare identità, di assumere un nome musulmano. Allucinante complessità del fanatico. (…) Non gli basta tenerti in pugno, barattarti per denaro. Vogliono la tua resa, la tua anima, salvare un miscredente dal peccato, portarlo alla vera fede. (…) Poi lo si potrà vendere, sfruttare, possedere. Senza rimorso. Nessuno ti dice che così la tua condizione di vittima, di prigioniero cambierà, che in quanto musulmano non subirai più violenze. (…) Ma ti accorgi immediatamente che l’abbandonare il nome, anzi gettarlo via come una cosa sporca, è l’equivalente, oh quanto più forte, del restare nudo, del lasciare i vestiti che ti hanno tolto subito dopo il sequestro. Sei debole, senti mancarti il terreno sotto i piedi, precipiti verso il fondo del trabocchetto, non sai neppure tu come ti devi chiamare. (…) Poi viene la proposta di pronunciare la preghiera, la dichiarazione di fede. Ma l’idea di mentire, del prendersi gioco dei tuoi carcerieri, salvarsi con la riserva mentale, ingannarli? Sarebbe lecito, in fondo. Pensiero che partorisce la notte. (…) Cerchi la via di scampo. E se fosse proprio in questo Dio in cui credono di credere i carcerieri? (…) Quello che cerchi, che sogni è avere un po’ di quella stanchezza felice che provano i convalescenti. Anche un dio implacabile e senza indulgenza può andare bene».

IL REGALO DEL GOVERNO AI JIHADISTI

Che la conversione all’islam sia stata libera o meno, che Silvia sia stata obbligata o meno a parlare bene dei suoi carcerieri, resta un aspetto su cui non si può non criticare il governo ed è la comunicazione sul caso. Lo ha evidenziato bene Gianandrea Gaiani su AnalisiDifesa.it:

«Quelle immagini della giovane italiana che scende dall’aereo a Ciampino col capo islamicamente coperto, indossando un vestito somalo da donna musulmana, accompagnate dalle dichiarazioni circa la sua libera conversione all’Islam rappresentano un formidabile successo propagandistico per Al Shabaab, per Al Qaeda e per tutta la galassia jihadista e dell’estremismo islamico. Non è difficile immaginare quanto a lungo queste immagini verranno utilizzate dalla propaganda jihadista per dimostrare alla loro opinione pubblica di riferimento, quella del mondo islamico, la loro superiorità ideologica e religiosa. Dal rapimento di Silvia Romano i terroristi islamici incassano quindi due grandi successi: quello finanziario con milioni di euro da investire nel jihad e quello mediatico incassato con la presentazione di una giovane “infedele” che, dopo essere stata rapita, afferma di essere stata trattata bene e di avere aderito spontaneamente all’islam. (…) Eventi come il ritorno a casa degli ostaggi in mano ai terroristi islamici hanno un valore strategico e come tali vanno gestiti, non come se si trattasse della serata finale di un reality show. Per questo il rientro di Silvia Romano, specie in quel contesto e con la simbologia che il suo abbigliamento rappresenta, doveva essere gestito senza immagini, in forma riservata e con i soli famigliari, oppure con la presenza del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri ma senza dichiarazioni ai media e riprese televisive. La ricerca spasmodica di una photo-opportunity o di qualche minuto sui tg della sera può produrre danni gravissimi ed è per questo che la comunicazione strategica e di crisi dovrebbe venire affidata a professionisti di questo delicato settore, che peraltro non mancano nelle nostre istituzioni, specie quelle militari».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: al qaedaIslamsilvia romano
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