Pubblichiamo la prefazione di Domenico Quirico, reporter per il quotidiano La Stampa, al libro di Farhad Bitani L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan.
L’Afghanistan sfugge alla presa dell’Occidente. Sempre. Ci sfinisce con la sua inesauribile usura. È sfuggito agli inglesi, quando ancora non meriggiava l’isola-impero, malgrado il vento della decadenza scuotesse già la buona vecchia Europa, assopita nell’equilibrio delle impotenze. Quando gli imperi nascevano così, da questa avida conquista delle ‘‘distanze” e del ‘‘denaro’’. È sfuggito ai russi la cui violenza era legittimata dagli immancabili destini della via rivoluzionaria. E invece, ancora una volta, quell’armata di stracci li ha costretti a ritirarsi. E infine, sì, anche gli americani… Tredici anni son passati e si prepara un’altra ritirata. L’invasione, i miliardi di dollari spesi, gli eserciti privati e le nuove tecnologie: polvere. Non hanno permesso di contenere né i talebani né la minaccia che ormai si incarna nella nuova Al Qaeda, ben più ambiziosa e mortifera di quella immaginata dall’emiro del terrore.
L’Afghanistan è un’altra volta sul punto di affondare, nonostante gli investimenti, i 45 mila soldati occidentali dispiegati e le migliaia di morti. I talebani sono tornati in forze. Attendono, pazienti, soltanto il ritiro degli esausti occidentali per riprendere il potere, con il sostegno di Al Qaeda e degli estremisti islamici del Pakistan. Il boom di produzione di eroina ha contribuito a finanziare la loro rivincita: quando il diavolo ben serve ai disegni, presunti, di Dio.
L’Afghanistan non vince i suoi vincitori con il fascino della propria civiltà come faceva la Grecia antica. Gli inglesi, i russi, gli americani sanno poco o nulla della civilizzazione afghana di cui colgono soltanto gli aspetti esteriori. Né vince il suo vincitore mediante una prepotente forza razziale, genetica, assimilatrice, come i germani con l’impero in decadenza. Vince con la sua infinita, testarda pazienza. Con i grandissimi antri vuoti e silenziosi delle sue montagne, dove gli invasori sono entrati qua e là, sperando di sorprendere il momento di una ripresa, l’attimo vivente di quel mondo sottinteso. Ma sempre la loro curiosità è rimasta delusa. Vinti, cacciati, sì, dal silenzio.
Il prezzo della vita
Forse è la identità umana degli afghani che sfugge perennemente alla nostra comprensione. Ci manca, forse, un libro, tra i tanti che sono stati scritti, memorialistica bellica, analisi geopolitica, anche storie di afghani raccontate da loro stessi, certo. Ci manca un onesto libro di viaggio sugli afghani, nel senso di un libro di viaggio interiore: limpido, semplice, puro.
Ma Farhad è molto giovane: a quell’età, molte cose non si temono. L’età e la morte, e tutte le cose che possono capitare: agguati, battaglie, malattie, tradimenti. La vita, non l’ha ancora afferrata questo giovane afghano: ella ha per lui un’aria di inafferrabilità. Ma in questo libro è già stata ridotta in minimi termini. C’è tutto, anche se in linee sottilissime. Racconta cose terribili e piccoli gesti della vita quotidiana che, in quello spazio, hanno un significato arcano e difficile. Guarda dentro con infinita pazienza. Racconta di qualcuno che è stato ucciso. Le parole non esprimono emozione: è un fatto. Si nasce, si combatte, gli amici muoiono, i nemici muoiono, si muore noi stessi.
Con gli afghani il problema è mal impostato. Puzza della febbre e dell’acido della passione. Sono decisi a morire? Bisognerebbe sondare i cuori. E poi che cosa vuol dire veramente essere decisi a morire, quando la morte, come per noi, è ancora in lontananza, pallida e azzurra come i loro monti all’orizzonte? Che cosa importa ciò che abbiamo pensato, noi, della morte in sua assenza? E invece là, per loro… La morte alza improvvisamente le pretese: improvvisamente si accorgono che le serve anche il loro sangue.
Sono cresciuti quelli di questa generazione all’ombra della guerra contro i russi e poi c’è stata la guerra tra i signori della guerra, e i talebani venuti a tagliar il groviglio inestricabile di sudici interessi; e poi Bin Laden e gli americani. Da un pezzo si erano familiarizzati con la morte e la presenza della morte al loro fianco li ha trasformati. Cominciavano, già ragazzi, a conoscere il prezzo di una vita umana; guardavano già le vite con impaziente malinconia, come se stessero dall’altra parte. Loro, fin dal primo giorno, hanno saputo che sarebbero morti da soli. Sarà questo che rinfacceremo loro quando ritorneremo un’altra volta laggiù? È proprio questo che si chiama “non saper più morire”?
Non esiste tregua
Farhad possiede quel genere di dignità che forse è di tutto il suo popolo, a cui noi non siamo più abituati; dignità di persone che forse hanno paura anche di un lieve dolore, eppure affrontano una guerra continua che dura, si può dire, da più di un secolo, che ha soltanto brevissime pause e sembra non finire mai. Tutti quei giovani e quei vecchi vestiti come sacerdoti, mobili e leggeri e terribili come fantastici portatori di morte, piegati a una disciplina superiore, mai vista nel caos e nel saccheggio delle rivoluzioni che noi conosciamo, dove fatalmente e inevitabilmente, ai combattenti per le idee, si affiancano e ribollono i rifiuti.