
Così muore la speranza del Libano di rinascere

Aïtou. A Thum sulla strada che corre lungo il mare, un posto di blocco dell’esercito regolare libanese segna l’inizio della zona nord del Libano. La zona interamente cristiana dominata dal grande santuario di Harissa, la statua della Vergine, da dove san Giovanni Paolo II lanciò il suo monito: «Il Libano non è solo una nazione ma è un messaggio per tutto il mondo».
Jounie è la capitale della zona interamente cristiana, quella considerata sicura e finora risparmiata dalla guerra, feudo delle Forze Libanesi di Samir Geagea e del Kataeb, i falangisti della famiglia Gemayel che più si oppongono ad Hezbollah. Hanno deposto, ma non lasciato del tutto, le armi e ora chiedono con forza l’elezione di un presidente che possa negoziare, se non la pace, almeno un’accettabile tregua e un cessate il fuoco.
Il leader cristiano che piace a Hezbollah e Amal
Più a nord ancora c’è Tripoli, città dove convivono musulmani sunniti, alawiti e cristiani. Un altro checkpoint a Bcheeleh sulla strada che sale verso le montagne segna l’inizio del distretto di Zgharta, feudo di Suleiman Frangieh. È il leader cristiano che guida Marada, ex milizia e ora partito politico. A lui guardano con simpatia gli sciiti filoiraniani di Hezbollah e i filosiriani di Amal. Se il presidente deve essere cristiano, per Teheran è lui il candidato ideale. Nell’intricato domino della divisione istituzionale libanese basta quello a bruciarlo agli occhi degli altri leader cristiani.
Del resto, Israele con lui non vuole certo trattare, dopo che Frangieh ha rivolto un appello ai libanesi a lottare contro gli ebrei «che hanno ucciso Gesù Cristo». Qui i messaggi non viaggiano solo su whatsapp, i più efficaci arrivano sulle testate dei missili teleguidati. E nel villaggio di Aïtou il messaggio di Israele è che ha ucciso 23 persone, 22 erano sciiti e rifugiati dal Sud. Dodici donne, nove uomini e due bambini. Secondo Israele tra loro si nascondeva un capo Hezbollah.

«Abbiamo solo ospitato dei rifugiati»
Una grande croce segna la strada all’ingresso di Aïtou. Tra le case colpite dal raid la statua di san Charbel, il santo caro ai cristiani maroniti. Sarkis Alwan è il proprietario della casa colpita. Abita in un’altra villetta poco distante. Lui e sua moglie Maria hanno due figli, un ragazzo e una ragazza. Sono salvi per miracolo, vista la potenza dell’esplosione che ha polverizzato la casa dove si erano sistemati i profughi e ha lasciato intatta la loro e la statua di San Charbel che sembra contemplare la desolazione.

Tra le macerie piccoli segni di vite spezzate, magliette e giochi di bambini, quaderni, abiti che lo spostamento dell’aria ha gettato sugli alberi e orano pendono come tristi bandiere. «Non pensavamo di essere in pericolo – dicono a Tempi –. Abbiamo dato solo ospitalità ai rifugiati. Erano vecchi, donne e bambini. Qui vicino ci sono altre case dei nostri fratelli. Era una cosa naturale aiutare gli sfollati. Qui non ci sono molti sciiti, i musulmani della zona sono sunniti. La maggior parte delle persone in fuga è stata accolta dai cristiani. Hanno colpito direttamente la casa dove c’erano i rifugiati. Un colpo terribile e molto preciso, che ha spazzato via tutto».
In paese altri ci dicono che da alcuni giorni era arrivato un uomo a bordo di un auto, portando valige di denaro in contanti ai rifugiati. Forse faceva parte della rete logistica di Hezbollah, quella che Israele sta cercando di distruggere. La sua auto è un cartoccio di lamiere tra le rovine. Ora la gente ha paura.

La nuova guerra minaccia la convivenza in Libano
Tre camion sono stati fermati nella notte dagli abitanti di un paese poco lontano, si temeva che portassero armi. Poi è intervenuto l’esercito e ha sequestrato tutto. Il timore è che Hezbollah porti armi e basi nel Nord spingendo Israele a colpire i villaggi cristiani che danno ospitalità ai rifugiati. Ed è quello che è accaduto. Il messaggio al mondo del Libano era ed è la capacità di convivenza tra 18 confessioni religiose diverse, tra le quali gruppi considerati eretici e perseguitati che qui avevano trovato accoglienza, crescendo in pace. Una convivenza mai interamente minata dall’interminabile guerra civile. Legami che neppure l’odio e le stragi avevano cancellato.
Ma ora la nuova guerra pone una seria minaccia. L’ospitalità mette a rischio i cristiani che danno alloggio agli sfollati. Tra le tante vittime di un anno di bombardamenti e tre settimane di guerra sul campo ora potrebbe essere cancellato il “messaggio” e con questo la speranza libanese di poter rinascere. Una speranza che non saranno le armi, sia pure dell’Onu, a sostenere.
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