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Ebrei. Se l’Europa non è più casa loro

Comprendere cosa accade e chiamarlo per nome contro il «totalitarismo del politicamente corretto». Intervista al rabbino Giuseppe Laras: «Bisogna resistere, mantenendo cervello e nervi saldi»

Emanuele Boffi
07/12/2015 - 5:00
Società
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sia l’indomani della strage a Charlie Hebdo e al supermercato della catena kosher Hyper Cacher, sia dopo i recenti attentati che hanno nuovamente insanguinato Parigi, Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, ha scritto al Corriere della Sera. Due lettere, entrambe coraggiose e controcorrente, schiette e che centravano il punto, al di là di ogni conformistica cautela: «Tutti noi, con la viltà, otterremo solo sottomissione. Mai libertà». Per i suoi studi e per i ruoli che ha ricoperto durante la sua vita, Laras è un’autorità in campo internazionale: è stato per venticinque anni rabbino capo di Milano, ha coltivato una profonda amicizia con il cardinale Carlo Maria Martini, e ad aprile, su iniziativa dell’arcivescovo Angelo Scola, è diventato il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori dell’Ambrosiana.

«Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi», scrisse il 13 gennaio, sottolineando sia le titubanze nel mondo musulmano nel denunciare il terrorismo sia la grave incapacità occidentale a capire l’islam; un’insipienza mascherata da ipocrisie politicamente corrette che impediscono di «comprendere ciò che accade e chiamarlo per nome». Lui, che per esperienza familiare ricorda ancora quando in Italia le delazioni si «pagavano cinquemila lire a ebreo», ha scritto un monito terribile: «La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo – e in cui per lungo tempo continueremo a vivere – non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell’intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso».

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Quando la storia si è tristemente ripetuta a novembre, Laras è intervenuto di nuovo con la seconda lettera per denunciare le complicità degli «occidentali “odiatori di sé”»: «Alleati dell’islam jihadista (Isis, Fratelli Musulmani, Hamas, Al Qaeda, Hezbollah e Iran) sono quei politici, pensatori, storici e religiosi che hanno distorto la pace in pacifismo, la tolleranza e l’inclusione in laissez-faire, la forza della verità in debolezza dell’opinione arbitraria, il dialogo in liceità di ogni espressione, il sano dissenso in intollerante conformismo politically correct».

Per Laras quel che oggi l’Europa è chiamata ad affrontare è ciò che Israele vive «da decenni: sopravvivere allo jihadismo che nutre menti, cuori e attese politico-religiose di troppi musulmani, anche se non di tutti».

Rav Laras, c’è un fenomeno di cui si parla poco, eppure ha dimensioni preoccupanti e riguarda l’esodo di ebrei che abbandonano l’Europa per trasferirsi in Israele. E tutto ciò, ben prima che accadesse il noto attacco del 9 gennaio all’Hyper Cacher. Nel 2014, 6.500 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, al pari di 323 nostri connazionali. In tutta Europa sono stati 17-18 mila solo lo scorso anno. Secondo i dati diffusi dall’ente addetto all’immigrazione in Israele, nei prossimi dieci anni 120 mila ebrei francesi si trasferiranno in Israele. Anche in Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq, l’amante ebrea del protagonista abbandona la Francia per «tornare a casa». La Francia, e più in generale l’Europa, è un luogo inospitale per gli ebrei? E cosa significa per il Vecchio Continente il loro esodo?
Si tratta di questioni difficili e dolorose. Gli ebrei italiani che abbandonano l’Italia alla volta di Israele possono sembrare relativamente pochi, ma, rispetto ai numeri complessivi dell’ebraismo italiano, sono una cifra rilevante. Specie perché si tratta, per lo più, di giovani. Tra le cause vi sono i problemi economico-lavorativi legati alla crisi economica, come pure l’invecchiamento progressivo di molte comunità – espressione della crisi demografica europea –, riducente antiche comunità ebraiche a pallide espressioni del passato. Vi sono, tuttavia, anzitutto sentimenti aggressivi antisemiti, legati all’antisionismo e alla questione israelo-palestinese, alimentati abbondantemente da certi ambienti politico-culturali terzomondisti, come pure legati a molte voci del mondo arabo-islamico, europeo e non. Vi è poi il fatto che, abbastanza a breve, in Europa, per semplici motivi demografici, la voce “araba” sarà molto forte e, anche nell’immaginario della persona comune, l’ebreo tornerà a essere l’estraneo, inchiodato a una proiezione distorta e schizofrenica di “vittima” – con un senso di colpa generico da parte di molti occidentali – e di presunto “carnefice” per la questione israeliana, con conseguente funzione assolutoria per la cultura europea rispetto ai suoi passati antisemiti. Non è un caso che, affossato il riconoscimento delle radici ebraico-cristiane dell’Europa dalla cultura laicista e da un certo cristianesimo, dai medesimi si additi ora, per varie ragioni, il futuro “islamo-cristiano” dell’Occidente europeo. La soppressione dell’aggettivo “ebraico” è emblematica, non solo per le sorti dell’ebraismo europeo. Aggiungo che purtroppo il dialogo ebraico-cristiano è arrivato troppo tardi – e troppo debolmente – per incidere in senso contrario in seno a questa civiltà e a questa cultura. E allora stereotipi antisemiti torneranno anche in seno al mondo cristiano, visto che, per esempio, il Corano e gli Hadith sono pieni di riferimenti antigiudaici…

Nella lettera che scrisse al Corriere l’indomani della strage di gennaio, lei pose due domande ai teologi musulmani. Nella prima, riassumendo, chiese se fosse possibile «per l’islam (…) accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest’ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche, che, in qualità di minoranze sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio». E la seconda: poiché per l’islam «gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico» è possibile «per l’islam in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico?». La mia domanda è questa: qualcuno le ha risposto? E soprattutto: pensa che l’islam possa fornire una risposta a questi interrogativi senza entrare in contraddizione con se stesso?
Una risposta puntuale a queste domande non c’è stata. Mi rendo ben conto che sono domande serie e problematiche. La cosa drammatica, tuttavia, è che queste domande siano state snobbate, non raccolte e non problematizzate seriamente da pensatori, politici, intellettuali, religiosi, teologi ebrei, cristiani, laici – liberali e libertini –, che le riprendano e invitino pressantemente il mondo islamico a riflettere su questi temi, specie in seno alle nostre società secolarizzate. Come pure non si inviti, per converso, il mondo europeo, informandolo puntualmente, a riflettere proprio su questi problemi.

Nella lettera pubblicata sul Corriere il 18 novembre lei ha scritto: «Il dramma è che, con cieca ignoranza, la cultura laicista considera, semplificandolo, l’islam politico realtà consimile e analoga a cristianesimo ed ebraismo e alle loro storie, anch’esse non prive di ombre. Le cose non stanno così». Lei ha ragione, eppure vediamo ancora oggi che gran parte del mondo culturale e politico europeo pensa di poter fermare il terrorismo imponendo una sorta di “religione laica” che releghi le altre, al massimo, nel privato. Come se ne esce?
Per ora sembra che non se ne esca. Quello del “politically correct” è un nuovo totalitarismo, estremamente subdolo, che in molte sue espressioni culturali e politiche lo stesso cattolicesimo contemporaneo si è auto-inoculato, con una sorprendente forza ottundente dei problemi. Bisogna resistere, mantenendo cervello e nervi saldi e alzando ancora di più i nostri standard culturali e informativi. È estremamente faticoso e non privo di sconforto.

Oggi c’è chi cerca di “venire a patti col diavolo”. È già accaduto, lei lo ha più volte fatto notare, col nazismo prima del Secondo conflitto mondiale. Ma, ha scritto sempre sul Corriere, «arretrando si arretra sempre più». Per “avanzare” cosa serve?
In alcuni casi anche non arretrare è già una conquista…

Nella prospettiva del jihad, dopo il popolo del sabato tocca a quello della domenica. È quello che vediamo accadere oggi in molti paesi del Medio Oriente e dell’Africa. I cristiani hanno sottovalutato quello che stava accadendo a voi ebrei? Cosa pensa del fatto che i cristiani occidentali sembrino molto timidi nel denunciare le persecuzioni subite dai propri fratelli nel resto del mondo?
Il jihad non è unicamente un fenomeno bellico-politico. Si tratta, per moltissimi musulmani religiosi, onesti e integri, anzitutto di un fatto eminentemente spirituale, ossia di una lotta dell’anima umana contro le forze negative e perverse che possono abitare in essa. Non possiamo tacere questa realtà, pena essere davvero “anti-islamici”. Vi è poi il jihad cui fa riferimento lei, che certamente esiste e che pervasivamente alberga nei cuori e nelle attese di molti. E il movente non è la presunta povertà, come erroneamente qualcuno crede. Basti, al riguardo, vedere le biografie di quasi tutti i terroristi, come pure i grandi finanziatori del jihadismo contemporaneo, dietro cui si muovono capitali enormi, ivi inclusi eccezionali investimenti economici e culturali in Occidente. In questo senso, il problema è antico. Si pensi, oltreché a noi ebrei, ai cristiani armeni e ai cristiani caldei e alle loro storie. Purtroppo i cristiani delle Chiese di Occidente quasi mai hanno letto ciò che subirono i loro fratelli di Oriente. Ripeto, si pensi alla storia armena. Al riguardo vi è, oltre al diniego, abissale ignoranza da parte di troppi occidentali. Purtroppo, quindi, con molta amarezza, non mi stupisce che la storia degli ebrei sefarditi di Oriente sia snobbata, non conosciuta o smussata nella sua gravità dagli ascoltatori europei. Inoltre, purtroppo, il cristianesimo di Occidente, che oggi è in crisi identitaria anche per il suo trovarsi “minoranza erosa” in casa propria, ha sempre ragionato – e tuttora ragiona – in un’ottica di “maggioranza”, che ritenne quelle minoranze cristiane, antiche e distanti per simboli e cultura, sacrificabili, specie nell’incontro-scontro con un’altra “maggioranza”, quella islamica, che nella sua storia ha sempre avuto l’autocoscienza mai scalfita di “maggioranza civilizzatrice”.

Foto Ansa

Tags: Bataclancharlie hebdoebreiGiuseppe LarasIsisIslamIsraeleparigi
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