Israele attacca Rafah. A che punto è la notte?
Le forze armate israeliane sembrano aver rotto ogni indugio sull’operazione di terra a Rafah. L’Idf ha condotto un attacco mirato al valico, prendendone possesso dopo aver avuto “informazioni di intelligence” che segnalavano che il passaggio veniva usato per scopi terroristici. Nuovi lanci di razzi da parte di Hamas e la scoperta di tre tunnel da cui passavano i rifornimenti di armi e munizioni hanno convinto ancor più gli israeliani a intervenire.
È iniziato il conto delle vittime militari di questa nuova offensiva: i civili vengono invitati ad un nuovo esodo verso un’area umanitaria dove Israele ha allestito tende ed ospedali da campo. È questo un segno che l’operazione era già stata preparata: l’offensiva, dice il portavoce dell’esercito, continuerà. Per ora si parla di “operazione di precisione”, cioè contro obiettivi mirati, ma si pensa che potrebbe allargarsi secondo lo schema già collaudato a nord: prima attacchi mirati poi infiltrazioni di commando delle forze speciali, infine il via ai tank.
Rafah, il 7 ottobre e la trattativa fallita
È così dal massacro del 7 ottobre: tra massicci bombardamenti e attacchi via terra, Israele non ha mai dato tregua. Si combatte ancora al centro e al nord di Gaza, dove piovono bombe e da cui arrivano razzi di risposta. Il risultato? Sempre più vittime civili. Il problema urgente sembra ora evitare una nuova battaglia casa per casa nell’unico punto dove l’esercito israeliano non aveva finora attaccato direttamente, cioè nella zona di Rafah dove si sono rifugiati almeno un milione mezzo di sfollati.
La trattativa al Cairo era diventata un palleggio estenuante condotto da Stati Uniti, Egitto, Qatar e Arabia Saudita in una continua rimodulazione della stessa ipotesi: tregua/pausa nei combattimenti e rilascio progressivo di ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi. Proposta di volta in volta modificata e rifiutata.
Il governo israeliano non crede ad Hamas, non ci ha mai creduto: i carri armati schierati a ridosso della fascia sud della Striscia sono un segnale chiarissimo. Gli ultrasionisti premono sul governo minacciando di far cadere Netanyahu, le disperate famiglie degli ostaggi sono in piazza con i loro presidi permanenti con cui chiedono un ulteriore sforzo di trattativa: non possono accettare che Israele lasci i loro cari in balia dei terroristi. Ma gli estremisti israeliani rispondono che questo è l’unico modo per far pressione ed eliminare Hamas. “Il resto sono chiacchiere che fanno perdere tempo e sacrificano inutilmente i nostri soldati”, dicono.
Tre condizioni impossibili
Se questa è la situazione è arduo sperare in qualche svolta. Uno dei più autorevoli commentatori delle vicende del Medio Oriente, Thomas Friedman, ebreo americano vicino al partito democratico, ha scritto sul New York Times: «Sono tre le condizioni perché riprendano i colloqui di pace: devono cambiare le leadership di Israele, Palestina e soprattutto Iran». Friedman sa bene che l’Iran è la chiave di tutto, controlla e finanzia Hamas e soprattutto Hezbollah, che minaccia Israele dal nord.
Le tre condizioni non sono solo difficili, sono impossibili: Netanyahu ha la maggioranza in Parlamento (e se è vero che nessun premier israeliano è rimasto in carica “dopo” una guerra è altrettanto vero che difficilmente un premier venga destituito “durante” un conflitto).
I palestinesi hanno due leadership, Hamas che non potrà mai essere un interlocutore in una road map di pace semplicemente perché la pace non la vuole, e l’Anp, il cui presidente Abu Mazen, 88 anni, dovrà pur rassegnarsi all’anagrafe e passare la mano (ma nessuno sa dire a chi e si prospetta un’ennesima guerra tra le fazioni palestinesi).
Infine l’Iran, ma anche qui la realtà è la medesima: la cui teocrazia non intende cambiare registro e agenda politica.
Se Friedman ha ragione si può sperare al massimo in una pausa nel conflitto, ma lo spirito di Oslo, la road map di pace per i due stati sigillata dal doppio Nobel, è svanita.
La propaganda di casa nostra
Intanto, anche in casa nostra, prosegue un’altra guerra, quella della propaganda. I banchi di saggistica delle librerie si arricchiscono di trattati di presunti esperti (la maggior parte dei quali non ho mai incontrato sul campo ma che tuttavia, beati loro, sanno tutto) in cui si racconta di un paese, Israele, razzista e torturatore.
Daniele Luttazzi sul Fatto Quotidiano è arrivato a ridare fiato alla narrazione negazionista secondo la quale il 7 ottobre non ci sarebbero stati stupri perché non ci sono prove, filmati o racconti diretti. Così dice lui, ignorando gli stessi filmati postati da Hamas, le testimonianze degli ostaggi rilasciati e dei sopravvissuti al massacro, le minacce quotidianamente postate sui social italiani alle giornaliste con commenti del tipo: «Veniamo a prenderti».
È questa una narrazione che riecheggia quella di Hamas o quella dei giornali e dei social in lingua araba e che si nutre di un ritornello che, più o meno, suona così: “Il 7 ottobre non è stato un massacro e comunque ve lo siete meritato, e comunque lo rifaremo”. Luttazzi arriva a dire che l’Onu non ha trovato riscontri citando un’anonima poliziotta.
Vale la pena ricordare che la missione guidata dalla rappresentante speciale dell’Onu, Pramila Patten, ha raccolto «informazioni chiare e convincenti» sulle violenze sessuali e sul fatto che ci siano «buone ragioni per credere che anche gli ostaggi siano stati e continuino ad essere violentati». Tra l’altro, la poliziotta (che Luzzatti non ha mai visto ma solo letto sul quotidiano di sinistra israeliano Haaretz) è stata da tempo smentita anche dalla meticolosa quanto raccapricciante indagine condotta dai centri anti violenza e dalle autopsie di cui Tempi ha dato ampia documentazione.
C’è speranza e speranza
Ma c’è anche chi cerca di non aggiungere buio al buio: il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ha ricordato pochi giorni fa al Premio Cultura cattolica di Bassano la situazione a Gaza e a Gerusalemme. Tutto sembra negare la speranza, la pace pare una illusione. Mai come ora manca la fiducia, le due società sono sempre più divise. Ma Pizzaballa ha anche ricordato che la parola “pace” in ebraico (shalom) e in arabo (salam) ha la stessa radice, che indica la totalità, il completamento.
È illusorio ora aspettarsi una speranza dall’esterno. Ma c’è speranza e speranza. E si può sempre costruire la pace se si è disposti a riconoscere l'”altro” in un’unità che non è uniformità ma una ricchezza. «Finché ci sarà una sola persona anche a Gerusalemme come in qualsiasi parte del mondo che vive in quel modo c’è speranza». Parole opposte al buio delle fake news. Si può vivere così.
È la sola sincera risposta che riesco a dare ora a chi torna a chiedermi: e tu che hai vissuto e vivi a Gerusalemme cosa dici? Cosa succede? Quando finirà? A che punto è il buio? A che punto è la notte? Shomèr ma mi-llailah, dice il profeta Isaia. Tornate a domandare, non vi stancate.
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