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Home Società

La pallavolista incinta e il cortocircuito della società senza figli

La maternità è un diritto da difendere solo quando serve alla narrazione anti-patriarcato. I danni della sindacalizzazione della questione femminile spiegati dal caso di Lara Lugli

Caterina Giojelli
11/03/2021 - 2:00
Società
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Un post, e nel giro di poche ore la storia della “gravidanza vietata” della pallavolista Lara Lugli era già diventata l’emblema «di un diritto ancora negato», «della condizione femminile in Italia», «del patriarcato che vede le donne un oggetto di proprietà altrui», di come la donna sia ancora «vittima di atteggiamenti che hanno radici medievali», «questa vergogna deve finire», «porterò il caso in Parlamento».

Dal Corriere a Repubblica, dall’Ansa a Wired, da Susanna Camusso alla senatrice Iv Daniela Sbrollini, da Maria Elena Boschi a Laura Boldrini, l’8 marzo scorso politica, giornali e mondo dello sport sollevavano gli scudi contro l’ennesima storia di «violenza contro le donne» (dal tweet della presidente del Senato Elisabetta Casellati).

La pallavolista citata “per danni”

La storia di Lara Lugli è quella di una pallavolista con un passato in serie A e che nella stagione 2018/2019 è sotto ingaggio del Volley Pordenone, serie B1. A marzo la donna comunica alla società di non poter concludere il campionato perché in gravidanza, la società risolve quindi il contratto e, quando Lugli chiede con decreto ingiuntivo gli arretrati di una mensilità, cita la ragazza per danni. Il caso è drammatico, non solo perché Lugli ha poi perso il bambino, ma perché mette a tema la questione, serissima, dei contratti e delle tutele delle atlete nel mondo dello sport, ed è paradossalmente la risposta, definita “piccata” dal Corriere, del Volley Pordenone ad attestarne la gravità.

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Discriminare la maternità è da Medioevo?

La società parla di «verità ribaltata», il contratto, presentato dall’agente stesso di Lugli, prevedeva clausole penalizzanti per l’atleta in caso di interruzione anticipata, «di fronte alla maternità ci siamo limitati a interrompere consensualmente il rapporto mantenendoci in costante contatto con la giocatrice anche nel doloroso momento che ha affrontato poche settimane dopo (…) Solo quando ci è arrivata l’ingiunzione di pagamento ci siamo opposti e abbiamo attivato le clausole del contratto».

Secondo il Pordenone, che a causa della pandemia ha smesso di pagare gli stipendi, interrotto l’attività e rinunciato all’iscrizione al campionato successivo, il rimborso non è dovuto. Secondo Lugli lo è eccome, tanto più che in seguito all’ingiunzione «nessuno le ha poi chiesto di tornare a giocare». Son cose da contratti, carte, avvocati, e sì, in quanto al riconoscimento del professionismo femminile si apre un tema enorme che ha visto l’Assist, associazione che si batte per la tutela dei diritti delle sportive, chiedere un incontro a Draghi e al presidente del Coni Malagò.

Mamme secondo Boldrini e la Silicon Valley

Questa è la storia di Lara Lugli. E poi c’è la narrazione della storia di Lara Lugli, quella in cui la maternità vissuta come un peso, una discriminazione, una colpa da punire sarebbe roba da Medioevo. Ed è qui che vale la pena ricordare che no, questa dottrina della maternità penalizzata e giudicata irrilevante nella sua dimensione sociale, di retrogrado non ha nulla. E che in pieno inverno demografico, di scudi sollevati in difesa della sua dimensione tutt’altro che privata, quando non sia minacciata dalla società maschile, se ne vedono ben pochi. Anzi.

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Tutti ci ricordiamo l’attacco isterico di Boldrini contro l’immagine dell’app Immuni che un anno fa mostrava una donna col bambino in braccio e l’uomo al pc, «un’app inquinata in partenza da insopportabili e anacronistici stereotipi», «fuori dal tempo e dalla storia (…) le donne italiane non meritano tutto questo» aveva rincarato Paola Concia. Ci ricordiamo le ovazioni dei giornali alle società della Silicon Valley così avanti nei diritti da proporre alle dipendenti di congelare i propri ovuli al grido “prima la carriera”, un benefit modernissimo per definire inequivocabilmente la maternità un intralcio.

Ovuli in freezer e uteri come attrezzi

Abbiamo visto mobilitazioni di ogni sorta per il diritto delle cinquantenni a fare figli, in lotta contro l’orologio biologico e l’inchiodamento delle giovani donne al destino della maternità, per il diritto a interrompere gravidanze in qualunque momento per qualunque motivo. Una maternità svilita ogni giorno dagli stessi giornali e politici (e dai tribunali), che oggi si stracciano le vesti per un “diritto negato” ma che trovano assolutamente normale che una donna infili i gameti in freezer, congeli gli ovuli, usi il proprio utero come un attrezzo o che una coppia di uomini possa farne le veci.

Ecco a cosa ci ha portato la sindacalizzazione della “questione femminile”, l’industria dei diritti e una battaglia per l’emancipazione eternamente sbilanciata ad assicurare libertà alle donne che di figli non ne possono o non ne vogliono avere. Un contratto come quello proposto dal procuratore di Lugli, e firmato dalla pallavolista e dal Volley Pordenone non dovrebbe avere cittadinanza perché la genitorialità non andrebbe mai discussa secondo le leggi di mercato: ma quando si è visto un altrettanto giusto sollevamento di scudi, in questa società dell’uguaglianza, a favore della maternità come valore sociale e non solo come arma di rivendicazione o diritto nel mercato del lavoro?

Quando Verona faceva schifo

È uno strano doppio standard. Non era forse medievale anche chiamare Verona «città a favore della vita»? Quando il consiglio comunale nel 2018 varò un’iniziativa per sostenere economicamente le donne incinte in difficoltà, senza mezzi o lavoro, Monica Cirinnà si disse «esterrefatta e schifata», e Pd, Leu e M5S si scagliarono contro una sorta di indebita classifica di valore che ponesse la scelta della maternità al primo posto, relativizzando le altre. Non è diverso da quello è che stato scritto in questo 8 marzo, quando medievale è diventato discriminare chi sceglie di diventare madre. Ma allora Verona era emblema di un altro diritto negato, quello di chi di figli non ne vuole sapere, e di un valore attribuito alla maternità per cui, quando non è l’8 marzo o non c’è qualcuno da salvare dal patriarcato, non si alza alcuno scudo.

Tags: femminismomaternitàpatriarcatosessismo
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