La preghiera del mattino
La crisi della sinistra europea, appesa ai Timmermans e ai Sánchez (e ai De Angelis)
Su Formiche Lorenzo Piccioli scrive: «Una vera e propria rivoluzione all’interno della dimensione strategica. “È estremamente importante che il Mar Baltico sia ora un lago della Nato, e chiunque si intenda di difesa capisce che questo sta cambiando molto in termini strategici”, ha commentato il ministro degli Esteri estone Margus Tsahkna per Newsweek».
Dalla fine degli anni Quaranta la politica italiana è intimamente legata a quella europea. Dal 1992 in poi questo legame è diventato, man mano e in parte, relativa subordinazione a una diarchia Francia-Germania accompagnata dalla tradizionale influenza di Washington. Da qualche anno, soprattutto dopo la guerra Ucraina-Russia, stanno cambiando le collocazioni dei soggetti in campo. La cosiddetta nuova Lega anseatica (dalla Scandinavia ai paesi baltici) anche per contrastare un’egemonia russo-cinese sull’Artico sta dando vita a una nuova soggettività più filoatlantica e meno Berlino-dipendente.
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Su Atlantico quotidiano Davide Cavaliere scrive: «Non è un caso che siano soprattutto le nazioni dell’Europa centrale a opporsi al verticismo della Ue. Secondo l’intellettuale polacco Marcin Król, la visione antinazionale, dissimulata sotto le mentite spoglie dell’avversione al nazionalismo, sottovaluta il potenziale positivo del patriottismo nella promozione della libertà, della democrazia e della pace».
Un processo analogo a quello “anseatico” sta avvenendo anche in una Polonia sempre più attratta dall’anglosfera, processo che diverrebbe ancora più solido se Kiev entrasse nell’Unione Europea. Tutto ciò spinge una parte della politica tedesca (vedi Manfred Weber e Friedrich Merz) a un maggior allineamento atlantista.
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Su Open Gianluca Brambilla scrive: «La Commissione europea si appresta a perdere il suo paladino del Green Deal. Oggi il primo vicepresidente dell’esecutivo Ue Frans Timmermans ha annunciato che intende lasciare le sue cariche europee per candidarsi alle elezioni in Olanda, in vista delle elezioni del prossimo 22 novembre. Il voto è stato annunciato dal premier uscente Mark Rutte, che la scorsa settimana si è dimesso dopo una spaccatura dei partiti di maggioranza. Rutte, alla guida del paese dal 2010, è il primo ministro più longevo della storia dell’Olanda ma ha annunciato che non ha alcuna intenzione di ricandidarsi. A guidare la coalizione eco-socialista – formata dal Partito laburista e dal partito di sinistra ecologista GroenLinks – sarà dunque Timmermans, che dovrà fare i conti con il boom di consensi ottenuti a livello locale dal neonato Partito degli agricoltori (Bbb), formazione dalla verve populista e che si oppone duramente alle politiche ambientali portate avanti proprio dal commissario Ue. Per potersi dedicare alla campagna elettorale Timmermans dovrà prendere un “congedo di assenza” dall’esecutivo europeo fino all’esito delle elezioni. E in caso di vittoria dovrà dimettersi».
Che Timmermans abbandoni la Commissione europea per cercare un improbabile protagonismo in un’Olanda sempre più attratta dalla cosiddetta nuova Lega anseatica e dall’anglosfera, è un’altra testimonianza della crisi della sinistra europea nelle sue anime socialiste, verdi, ultraliberal. Di fatto la crisi della sinistra europea nasce innanzi tutto in Germania dove la Spd è assai responsabile sui temi economico-sociali ma un po’ ballerina in politica estera, mentre i Verdi sono assai responsabili nelle scelte atlantiste ma influenzati sulle scelte economiche da un certo radicalismo ecologista. In realtà i partiti socialisti che ancora funzionano sono quelli portoghese e danese, pragmatici, atlantisti, legati più ai lavoratori che ai ceti urbani ultraliberal: se i nuovi pragmatici laburisti vinceranno le prossime politiche in Gran Bretagna, Londra diventerà a Lisbona e Copenaghen un riferimento per questo tipo di socialdemocrazia.
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Su lavoce.info Paolo Balduzzi e Alfredo Ballabio scrivono: «Dopo le elezioni spagnole di luglio, nelle quali il Partito popolare ha ottenuto più voti (e seggi) ma regna grande incertezza su chi potrà formare il nuovo governo, la questione catalana potrebbe riacquistare nuovo interesse. Da un lato, infatti, il seppur ottimo risultato del Partito popolare non sembrerebbe sufficiente a formare una maggioranza parlamentare con Vox, il partito di estrema destra spagnolo, che invece è uscito ridimensionato dalle urne. Dall’altro lato, una coalizione appare possibile a sinistra, intorno al presidente uscente Pedro Sánchez, leader del Partito socialista, grazie sia al risultato della coalizione di sinistra Sumar sia ai migliori rapporti di Sánchez con i partiti regionali catalani, baschi e galiziani. Tuttavia, l’ultimo riconteggio dei voti (il conteggio del voto degli spagnoli residenti all’estero è iniziato dopo) ha tolto un seggio al Psoe e questo, numeri alla mano, potrebbe significare che l’eventuale coalizione dovrà ottenere il voto favorevole, e non più l’astensione, del partito indipendentista catalano Junts. Più precisamente, in questo momento la coalizione di centrosinistra non avrebbe nemmeno la maggioranza relativa dei seggi (nel qual caso sarebbe bastata un’astensione di Junts per ottenere il via libera a un governo di minoranza). L’unica possibilità sarebbe il raggiungimento della maggioranza assoluta, fissata a quota 176 seggi, per il quale è necessario un esplicito voto a favore anche degli indipendentisti catalani».
La Spagna ha scontato l’atlantismo di José María Aznar subendo una cura disgregatrice, non priva di sponde nella Berlino di Gerhard Schröder e Angela Merkel, una cura in parte specifica (nel caso si sono molto utilizzate le spinte regionalistiche) e in parte analoga alle cure riservate a Roma nel 1994, tra il 2001 e il 2005, tra il 2008 e il 2011, e tra il 2018 e il 2019. Anche oggi, pur essendo Parigi e Berlino in grande difficoltà, la cura disgregatrice funziona in parte, anche se gli esiti sono molto incerti.
D’altro verso ciò avviene anche a Roma. Si consideri solo l’isterica furia con cui si attacca Giorgia Meloni: prima prendendosela con l’ex marito della mamma, poi con la sorella, poi con un Economist molto italianizzato che attacca il convivente della premier italiana per una battuta sul caldo in una trasmissione tv, infine con un tecnico responsabile della comunicazione del presidente del Lazio (non un ministro non un segretario di partito ma un “addetto stampa”) che fa un post molto sentimentale e assai poco politico su un paio di neofascisti suoi vecchi amici condannati per l’attentato a Bologna del 1982 (1982: 41 anni fa, quando l’attuale premier aveva cinque anni), e diventa subito il “fratello” dell’ex “fidanzato” della Meloni. Tutto sommato la strategia della disgregazione sinora messa in atto da noi sembra molto scombinata. Ma è ugualmente furiosa. E forse qualcuno a destra comincerà a pentirsi per non aver voluto al Quirinale un Mario Draghi che per cultura e relazioni internazionali ha dimostrato di sapere sia da presidente della Bce sia da presidente del Consiglio come proteggere l’Italia dalle strategie disgregatrici.
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