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La compagnia del dissenso

Dalla Polonia all’Italia passando per la Francia, s’avanza in tutta Europa uno strano “populista”. Che cos'hanno in comune Orban e Lindo Ferretti, Chesterton e l'ateologo Onfray?

Antonio Rapisarda
07/11/2015 - 1:00
Società
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Pubblichiamo l’articolo contenuto nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Che cos’hanno in comune Viktor Orban e Giovanni Lindo Ferretti? I centri sociali non conformi e la Manif pour tous? L’“ateologo” Michel Onfray e Gilbert K. Chesterton? Ida Magli e la Lega Nord? Perché, nel vortice della crisi del sistema sociale europeo, seconda solo al disastro post-bellico, uomini ed esperienze storicamente irriducibili gli uni con gli altri sembrano appartenere oggi al medesimo blocco critico, rispetto al totem dell’Unione Europea e alle sue derive multiculturaliste? Come mai i cosiddetti temi eticamente sensibili – dai matrimoni gay all’utero in affitto – sono sempre più oggetto della società civile e sempre meno della gerarchia ecclesiastica? E perché, infine, “l’identità” è diventata il vettore principale del populismo, sostituendo la giustizia, il fisco e la sicurezza?

Tante domande per una reazione che nasce dallo stesso rigetto: dal rifiuto che venga modificata l’idea di uomo con l’evaporazione del sesso come realtà biologica, che venga modificato lo stile di vita delle comunità dall’arrivo indotto e incontrollato di extracomunitari (stimato dal Pentagono in 250 milioni per ciò che riguarda il “mantenimento” dell’Europa), e che con questo combinato disposto venga stravolto l’impianto e il costume dei popoli, sostrato prodotto e sedimentato da secoli di storia. Una reazione tutt’altro che organizzata e organica questa, ma che “esplode” nelle piazze (come il 20 giugno a Roma), nelle librerie (con il successo dei polemisti francesi), in attesa di vedere quanto lo sarà nelle urne (dal Front National a Pegida, dopo l’exploit dei movimenti identitari nell’Europa dell’Est, ultima in ordine di tempo la Polonia).

Nei quotidiani mainstream, ad esempio, ci si chiede con allarmismo come mai le viscere popolari, dopo essere state tramortite, cercano strade, leader, movimenti che interpretano il “non ne possiamo più di queste élite” tra gli irregolari e fuori dalle maglie del politicamente corretto. Ci si chiede in fondo come mai il popolo “cocciuto” non accetti di delegare così volentieri le ultime porzioni di sovranità. Sostituire la bandiera “rainbow” (quella del movimento Lgbt) con un tricolore in uno spazio del Municipio, come è successo a Roma per mano dei giovani del centro sociale identitario Foro 753: nell’Italia del 2015 questo rappresenta un atto di disobbedienza ed è la cifra estetica della nuova forma di opposizione che sta maturando anche nel Belpaese.

Davanti alla “rivoluzione antropologica” in atto – quella che Eric Zemmour in Francia ha smascherato dietro il trittico “Derisione, Decostruzione, Distruzione” e che ha preso di mira gli assi cartesiani della costituzione geografica, sessuale e sociale di un popolo – si sta organizzando in tutta Europa un’inedita “compagnia del dissenso”: qualcosa che non si indirizza più esclusivamente alla critica del sistema di produzione o sulla distribuzione della ricchezza ma che combatte per riaffermare la realtà rispetto all’ingegneria sociale, la Storia rispetto alla fiction, la comunità rispetto alla giungla globale, il concetto di classico contro il liquido, sempre più liquefatto. A sostegno di tutto ciò – seppur a volte in maniera confusa e in parte contraddittoria – vi è un’opposizione politica di opzione identitaria in maggioranza, con appendici critiche anche a sinistra. Ma il vero motore, il laboratorio di questa reazione proviene da una categoria inedita per il cosiddetto blocco conservatore: è il mondo della cultura, dell’associazionismo e della società che si stanno interrogando su come organizzare questa controriforma. C’è chi ha parlato, a proposito, del primo ’68 reazionario, chi di una particolare appendice del populismo. Tra di loro, invece, capita spesso di sentire uno slogan: l’umano contro il post-umano.

Prima di tutto: che uomo è?
«Si tratta di preparare i giovani a non appartenere a nulla, a non identificarsi in nulla, a non sapere orientarsi sessualmente ma anche geograficamente: a che servirebbe visto che il pianeta è di tutti?». Ida Magli, antropologa, scrittrice e pamphlettista, con la sua prosa efficace già due anni fa denunciava così in Difendere l’Italia quali siano le reali intenzioni del processo di integrazione europea, sempre più invasivo nella determinazione di questa “rivoluzione antropologica”. Proprio in queste settimane i provvedimenti inseriti tra le “priorità” del governo Renzi – ossia l’introduzione dello ius soli sulla cittadinanza e il ddl Cirinnà bis sulle unioni civili – si innestano in quella volontà: “preparare” una generazione a essere sempre più disorientata rispetto al naturale processo di autodeterminazione sessuale e comunitario per affermare “l’altrove” sancito dai dettami (la cui pressione si esprime sotto forma di sanzioni e “raccomandazioni”) dell’Europa e delle minoranze attive.

Lo ha spiegato bene Giuseppe De Rita da dove proviene questa spinta: «La cultura gender è attiva all’interno dei mezzi di comunicazione che fanno opinione – ha spiegato il presidente del Censis a Intelligonews – e ha conquistato la maggioranza di coloro che devono prendere delle decisioni. Coloro che invece saranno oggetto di quella decisione, le persone comuni, sentono che nessuno li ha interpellati. In televisione e nei media vengono presentate le istanze di persone acculturate, di ceto medio-alto, che si battono per le unioni gay, ma stento a immaginare che il meccanico di Bordighera si ponga il problema di stare con il proprio compagno e averci un figlio. Perciò la gente si mobilita ma non è una reazione cattolica, è una reazione istintiva contro quella minoranza». Reazione, questa, che vede in Italia diversi speaker: in prima fila abbiamo cattolici di sinistra come Mario Adinolfi, esponenti di centrodestra come Eugenia Roccella, rappresentanti di peso del mondo economico come Ettore Gotti Tedeschi, scrittori e saggisti come Costanza Miriano, movimenti laici come la Manif pour tous Italia e una miriade di associazioni (ProVita, Sentinelle in piedi, Comitato per la famiglia) e di testate giornalistiche che proprio su questo rappresentano quel pachtwork eterodosso che se non trova un terminale privilegiato a livello politico è proprio perché anche qui la “nuova antropologia” ha annullato, perché le ha annichilite, gran parte delle differenze.

Se le risposte a questa crisi – che coniuga quella relativa al debito sovrano con quella nichilista e post-contemporanea –, ossia sovranità, identità, tutela della differenza, sembrano nascere dal milieu del pensiero conservatore, se non nella vera e propria dottrina tradizionale, sorprende il fatto che proprio il cleavage, la frattura, non si muova più sullo schema assiale destra-sinistra. Lo spiega bene, suo malgrado, Matteo Renzi quando rivendica, ad esempio, che «tagliare le tasse non è di destra». E la conferma arriva, come contrappasso, dalle ventate liberal che si respirano all’interno del cosiddetto schieramento di centrodestra dove, seppur in forma non aggressiva, le “aperture” sono sbandierate da diversi importanti esponenti di Forza Italia. Politicamente è stata Marine Le Pen a teorizzare, e a mettere in pratica, come lo scontro oggi sia tra alto e basso, élite contro il popolo. È qui che si è confermata quella nuova (e antica) soggettività che trova adesioni e manifestazioni in tutti i paesi europei e che si manifesta, prima di tutto, come reazione ai diktat di Bruxelles ma che – nella sua corrente identitaria – all’Unione Europea imputa anche il processo ingegneristico, di vera e propria trasformazione sociale.

Un patrimonio da difendere
I politologi lo chiamano “populismo patrimoniale”: è la reazione che i ceti sociali maggioritari oppongono a questo attacco che riguarda il sistema di vita, oltre che il mero interesse economico, e che si presenta non solo sotto la veste dello “straniero” ma anche dell’“estraneo” alla propria identità. Questo è ben visibile in Francia, ad esempio, dove anche diversi cittadini di fede musulmana e comunità numericamente non indifferenti di immigrati di seconda e terza generazione sostengono le tesi degli identitari e del Front National su immigrazione e famiglia, in quanto ritengono universale la difesa di alcune questioni.

Proprio in difesa di questo asse – identità e famiglia – si sta formando un’internazionale populista che continua a mettere in allarme i normalizzatori di Bruxelles. Dal cesaropapismo di Vladimir Putin all’Ungheria come corpo mistico di Viktor Orban, passando per il conservatorismo integrale della vincitrice delle elezioni polacche Beata Szydlo fino alla declinazione laica ma fisiologicamente tradizionalista del Front National e della Lega: su questo binario viaggia la critica sovranista all’idea che l’agenda sulla politica della famiglia possa essere decisa da organizzazioni sovranazionali o ispirate da network e mecenati (come nel caso delle Femen). E in alcune realtà, come in Francia, dove il processo di secolarizzazione e le criticità hanno debordato, ecco gli intellettuali in prima linea a denunciare i rischi di questo “smarrimento”.

Se Alain de Benoist, padre della nuova destra francese, è considerato uno storico punto di riferimento della critica al mondialismo (a cui oppone un robusto differenzialismo), a rendere questa stagione ancora più intrigante è la reazione di pensatori con un pedigree tutt’altro che conforme al fronte della tradizione. Si va da “la grande sostituzione” etnica studiata e rilanciata dallo scrittore omosessuale Renaud Camus, scenario che giorno dopo giorno assomiglia sempre meno al plot di un romanzo distopico e sempre di più a una realtà prossima; alla “società plasmata sui valori femminili” denunciata da Eric Zemmour, in base alla quale la società francese e quella occidentale sarebbero destinate al “suicidio”, all’egemonia dell’islam e della sua etica perché deficitarie oramai dell’elemento virile che conduce – quando serve – all’affermazione, allo strappo.

Ha creato scandalo poi, tra gli intellò, l’indipendenza di giudizio di uno dei principali pensatori della sinistra libertaria, il filosofo-star Michel Onfray, che è stato messo all’indice pubblicamente da Christian Salmon per non essersi allineato sui temi dell’identità, del gender, del “corpo della donna in affitto”. Messo all’indice – con l’accusa sommaria di «stare a destra» solo per richiamo mediatico – a causa di concetti “scandalosi” come questo: «Che cosa ci immaginiamo, che il bambino potrà vivere una vita serena, equilibrata, armoniosa, mentalmente soddisfacente per lui, per gli altri, per chi gli sta accanto e per la sua discendenza, quando saprà che è stato comprato, venduto?».

I ribelli in Italia
E in Italia? Come abbiamo visto la reazione si esprime a livello popolare, associazionistico e culturale prima che politico. Anche il web è parte importante della risposta al processo uniformante in corso. Facendo proprio il motto di Gilbert K. Chesterton «la serietà non è una virtù», numerosi gruppi di internauti (uno dei più divertenti è “La via culturale al socialismo”) contrappongono alla retorica che trova eco, ad esempio, nella seriosità declamatoria di Laura Boldrini, un armamentario di goliardia che mette alla berlina soprattutto l’uso di inventare neologismi e sostituire vocaboli della lingua corrente. Certo, esistono anche interpreti istituzionali di questa ribellione (come Roberto Maroni che, da governatore della Lombardia, ha patrocinato e rivendicato convegni “scomodi” sulla famiglia) e sul fronte dei leader Matteo Salvini e Giorgia Meloni guidano un’opposizione che rispetto al “no tasse” cerca di declinare una critica più complessa al vero e proprio sistema di governo che arriva dall’Unione Europea anche sui temi antropologici: a portare, cioè, un po’ di ordine rispetto alla debolezza dell’“anarchia etica” rivendicata sull’argomento da Berlusconi.

A questi, per lo meno sul contrasto al paradigma dei neo-valori, si sono affiancati nuovi compagni di viaggio che chiudono il cerchio di questa poliedrica “compagnia del dissenso”. Ed è indicativo che anch’essi, come è avvenuto in Francia, non provengano dai lidi consueti del pensiero e dell’invettiva tradizionalista. Uno è sicuramente Diego Fusaro, giovane filosofo neomarxista appassionato di Gentile, che – immunizzato dalle derive liberal della sinistra – riprende la lezione realista a partire proprio da un approccio critico all’idea di progresso e all’apologia della società dei diritti: «Al di là della carnevalata della divisione in tifoserie calcistiche pro e contro la famiglia tradizionale, occorre rilevare un aspetto: il fanatismo economico aspira a distruggere la famiglia, giacché essa – Aristotele docet – costituisce la prima forma di comunità ed è la prova che suffraga l’essenza naturaliter comunitaria dell’uomo. Nasciamo in comunità e – con buona pace della Thatcher e dell’individualismo robinsoniano dei neoliberali – l’individuo è già sempre collocato in una comunità originaria, senza la quale non sarebbe possibile».

Ha creato una crisi di nervi, infine, tra i cultori del ribellismo à la page, l’uscita alla festa di Atreju di Giovanni Lindo Ferretti, già leader della band cult del punk italiano, i Cccp, frontman dei Pgr (Per Grazia Ricevuta) e solista, sull’altro tema chiave della narrazione neo-internazionalista, quello dei cosiddetti “migranti”: «C’è un diritto dell’umanità a vivere in pace nella propria terra, ma lo straniero è straniero – ha ribattuto l’artista –, uno Stato che non protegge i confini e non pensa ai suoi compatrioti non è uno Stato. Mi fanno molta impressione le persone che mettono i propri cari all’ospizio per dedicarsi ai poveri del terzo mondo». Dai tradizionalisti ai punk, insomma, la narrazione che esalta l’“apolide” comincia a trovare pane per i suoi denti: le vie del dissenso “identitario” sono davvero infinite.

Foto Polonia Ansa/Ap
Foto Le Pen e Lindo Ferretti Ansa

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