L’avanzata jihadista in Siria fa il gioco di Turchia e Israele

Di Rodolfo Casadei
05 Dicembre 2024
La perfetta convergenza degli interessi tattici di Turchia e Israele in questa nuova fase del conflitto siriano è un vero paradosso geopolitico
I terroristi di Hts conquistano Aleppo in Siria
I terroristi di Hts conquistano Aleppo in Siria (foto Ansa)

Quello che ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi a proposito della fin qui vittoriosa offensiva dei ribelli di Hayat Tahrir al-Sham e dell’Esercito nazionale siriano nelle regioni di Aleppo e di Hama nella Siria settentrionale, e cioè che si tratterebbe di «un complotto orchestrato dagli Stati Uniti e dal regime sionista», non è dimostrabile. Tuttavia che il cambiamento dei rapporti di forza sul campo di battaglia siriano vada a vantaggio di Israele e in subordine degli Usa è un’evidenza.

Se cade il regime di Assad

Il regime di Bashar al-Assad è un anello nevralgico dell’asse della resistenza anti-israeliano sciita che senza soluzione di continuità territoriale va da Teheran alla valle della Bekaa e alla periferia sud di Beirut in Libano, passando per l’Iraq. Razzi, missili e altre armi di origine iraniana arrivano nelle mani di Hezbollah passando prima attraverso il territorio iracheno e poi attraverso quello siriano.

La caduta del governo di Damasco a dominante alawita e la sua sostituzione con un esecutivo egemonizzato da arabi sunniti, o per lo meno una grave crisi come quella che nella prima metà del decennio scorso fece perdere al regime il controllo di due terzi del territorio nazionale, farebbero cessare completamente il flusso di armi a Hezbollah e disinnescherebbero definitivamente il suo potenziale di minaccia nei confronti di Israele.

La crisi fa il gioco di Israele e Turchia

Ma se avesse voluto affermare qualcosa di veramente originale e coraggioso, il ministro Araghchi avrebbe dovuto dire che la successione degli avvenimenti fa pensare non tanto a una macchinazione sionista-statunitense, ma a un complotto turco-israeliano: lo Stato che insieme a Israele ha più da guadagnare dall’attuale corso degli eventi è palesemente la Turchia.

In questo momento i combattenti dell’Esercito nazionale siriano, mosaico di fazioni da parecchio tempo al soldo di Ankara, non stanno scontrandosi solo contro le Forze armate siriane e le milizie sciite iraniane o libanesi, ma stanno sottraendo terreno anche ai curdi della Forze democratiche siriane (Fds).

Il vasto disegno di Erdogan in Siria, che in questi giorni sta facendo in modo inaspettato progressi enormi, è: creare una fascia di sicurezza di 30 km all’interno del territorio siriano lungo tutto il confine settentrionale con la Turchia, controllata dalle forze armate di Ankara e da milizie siriane filo-turche, sgominare le Fds e soprattutto la loro componente Ypg, legata al Pkk turco, trasformare le province siriane di Idlib, Aleppo e Hama in una sorta di protettorato turco, convincere gli americani a dare semaforo verde a tutti questi obiettivi dimostrando loro che la Turchia è in grado di tenere l’Iran fuori dalla Siria molto meglio delle Fds che gli Usa continuano a sostenere.

Protesta in Iran contro Turchia e Israele in seguito agli attacchi jihadisti in Siria
Protesta in Iran contro Turchia e Israele in seguito agli attacchi jihadisti in Siria (foto Ansa)

Lo zampino di Erdogan

La perfetta convergenza degli interessi tattici di Turchia e Israele in questa nuova fase dell’ultradecennale conflitto siriano è il vero paradosso geopolitico a cui stiamo assistendo. Recep Tayyip Erdogan ha applaudito il mandato di arresto del premier Benjamin Netanyahu per crimini di guerra a Gaza emesso dalla Corte penale internazionale come «una decisione coraggiosa» che «rinnova la fiducia dei popoli nelle istituzioni internazionali».

Sta di fatto che senza l’approvazione della Turchia, garante con tanto di truppe sul campo dell’armistizio che nei giorni difficili del 2020 ha permesso ad Hayat Tahrir al-Sham e all’Esercito nazionale siriano di sopravvivere nella ridotta dell’Idlib alla tenaglia russo-iraniana che li stava stritolando, la vittoriosa offensiva dei ribelli su Aleppo e la rotta delle truppe governative non sarebbe mai stata possibile.

Offensiva che, guarda caso, coincide con la cessazione delle ostilità fra israeliani ed Hezbollah in Libano: esattamente il 27 novembre scorso, mentre entrava in vigore il cessate il fuoco fra israeliani e sciiti libanesi, prendeva il via l’offensiva ribelle nelle province di Idlib e Aleppo che due giorni dopo avrebbe portato alla caduta della seconda città della Siria.

Israele non aspettava altro

Chi non vuole credere a una collaborazione operativa fra jihadisti siriani e strateghi israeliani fa notare che più semplicemente i ribelli hanno colto l’opportunità creata dalla degradazione della presenza militare iraniana e di Hezbollah in Siria risultante dai numerosi attacchi mirati israeliani degli ultimi mesi: l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Sohr) ha contato 150 incursioni aeree israeliane su obiettivi in territorio siriano dal gennaio scorso. Il 20 novembre tre raid su Palmira contro gruppi filo-iraniani hanno ucciso 106 combattenti; a settembre, un raid ha distrutto una fabbrica di produzione di missili controllata dai Guardiani della rivoluzione iraniani ad Hair Abbas nel nord della Siria.

I ribelli si sarebbero dunque mossi sfruttando l’indebolimento degli alleati che in questi anni hanno consentito a Bashar al-Assad di restare in sella: alle perdite causate dagli interventi chirurgici dell’aviazione israeliana si aggiunge il fatto che russi ed Hezbollah hanno dovuto trasferire uomini e mezzi rispettivamente in Ucraina e nel Libano meridionale per sostenere i fronti apertisi nel frattempo.

Sta di fatto che ora gli Hezbollah dovranno tornare a frotte in Siria (dove hanno perso circa 2 mila uomini fra il 2011 e il 2023 per sostenere il regime) per cercare di evitare armi alla mano qualcosa di peggiore della ritirata a nord del fiume Litani: l’esaurimento dei rifornimenti dall’Iran e di conseguenza il loro tracollo come forza militare. Musica per le orecchie di Israele.

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La mano di poker della Turchia è più complicata. Erdogan sa che Russia e Iran non hanno nessuna intenzione di abbandonare al suo destino Assad: a Tartus c’è l’unica base navale militare russa nel Mediterraneo e a Hmeimim, nei pressi di Laodicea, l’unico aeroporto militare fuori dall’ex Unione Sovietica; allo stesso modo Teheran non può permettersi di perdere Damasco perché perderebbe anch’essa l’accesso al Mediterraneo (che adesso gli garantiscono Assad e gli Hezbollah) e insieme la possibilità di mettere sotto pressione Israele.

Il presidente turco conta di concludere nuovi accordi e nuovi compromessi con Mosca, comprendenti l’impegno da parte di quest’ultima ad esercitare pressioni su Assad perché rinunci alle sue posizioni intransigenti nelle trattative per la normalizzazione dei rapporti fra Turchia e Siria. In sostanza Erdogan chiede che Assad si riprenda i tre milioni di profughi siriani che si sono rifugiati in Anatolia, che autorizzi formalmente una zona di influenza turca nel nord della Siria e che associ al potere gli oppositori – naturalmente quelli amici della Turchia.

Assad dovrà cambiare tattica

Su alcuni di questi punti il presidente siriano dovrà finalmente transigere, ora che la sua politica del basso profilo nella crisi regionale non è più una garanzia di sopravvivenza.

Assad si è limitato a dichiarazioni verbali di condanna dopo l’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza e non ha mai reagito alle incursioni di Tel Aviv in territorio siriano contro i suoi alleati iraniani e libanesi, per evitare che le sue logorate forze armate (impegnate dal lontano 2011 nell’interminabile guerra coi ribelli jihadisti e filo-turchi) venissero ulteriormente degradate anche da attacchi israeliani.

Ora che Israele pare aver deciso che non gli basta più avere il suo tacito permesso di colpire le armi iraniane in transito verso il Libano quando riesce ad individuarle, ma che è necessario arrestare completamente il flusso, il figlio del “Leone di Damasco” (il padre Hafez, che tenne il potere per quasi trent’anni) dovrà necessariamente cambiare tattica. Oppure gliela faranno cambiare gli alleati russi.

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