In volo verso casa, con il naso contro il vetro
Novembre, in volo verso l’Italia. Dopo tanti anni che vado in giro per lavoro, ancora, in aereo, voglio il posto accanto al finestrino. Ancora, al decollo, col naso schiacciato contro il vetro come un bambino, guardo giù. Le grandi periferie metropolitane con la loro rete infinita di strade e case e ancora case mi sgomentano un po’: come la prima volta che ho volato, ancora mi domando come farà, Dio, a conoscerci e ad amarci tutti, sotto a questa infinita legione di tetti.
I miei voli preferiti sono quelli notturni, quando si decolla al tramonto e l’aereo si alza e fende la notte nera come inchiostro. Ma è soprattutto quando si comincia a scendere, e nel buio si distinguono le luci delle città, che mi incanto a guardare dall’oblò. Mi piacciono le macchie giallo oro dei paesi, da cui come una tela di ragno si dipartono le strade; poi, ampi spazi di buio, boschi forse, o montagne, e in mezzo, isolata, una sola luce. Chi ci vivrà, laggiù? mi domando, inseguendo con lo sguardo quel segreto che non conoscerò.
La cosa più bella però è l’avvicinarsi a Milano e alla sua distesa di luci rossastre, e riconoscere la Tangenziale e i quartieri; e sapere che lì sotto, fra milioni di finestre illuminate, c’è anche quella della casa dove mi aspettano.
Allora chiudo gli occhi, e come è dolce, il morbido “tumpf” dell’apparecchio che tocca il suolo.
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