La preghiera del mattino

In America non dimenticano le “cinesate” di Di Maio e Prodi

Luigi Di Maio e Enrico Letta
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio con il segretario del Pd Enrico Letta (foto Ansa)

Su Fanpage Tommaso Coluzzi riporta questa frase di Hillary Clinton: «L’elezione della prima premier in un paese rappresenta sempre una rottura col passato, ed è sicuramente una buona cosa».

Al di là di una ragionevole solidarietà femminil-femminista, nella parole della Clinton si legge anche il fatto che in uno scenario segnato dal conflitto russo-ucraino e da pericoli di guerre ancora più apocalittiche, come spiega Henry Kissinger, il peso del Pentagono sarà sempre più determinante, e alleati sicuri come i polacchi e Giorgia Meloni tenderanno a essere preferiti a personaggi come il nostro Enrico Lettino così amico di un affezionato interlocutore di Pechino come Romano Prodi.

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Su Huffington Post Italia Romano Prodi dice: «I francesi commentano: noi abbiamo la Le Pen e la consideriamo erede di ideologie che mettono a rischio il nostro sistema; in Italia hanno la Meloni, che è più a destra della nostra Le Pen, ma non se ne preoccupano. Secondo i francesi, quindi, gli italiani preferiscono sempre stare a vedere. Probabilmente i francesi vedono giusto e io non posso non preoccuparmi pensando a quanto questo atteggiamento ci costerà. Urlare al lupo al lupo non serve. Ma va fatta una riflessione».

In apparenza Prodi è concentrato sulla torsione reazionaria che Giorgia Meloni potrebbe imprimere alla democrazia italiana, in realtà quello che lo preoccupa è l’atlantismo della leader di Fratelli d’Italia. A proposito di lupi, poi, su cui urlare più o meno, è interessante ricordare come il professore emiliano quando fu rimproverato per i suoi legami troppo stretti con la Cina di Xi, rispose: qualcuno con il lupo deve pur parlare. Il fatto è, però, che Francesco d’Assisi non si faceva pagare royalty per i suoi dialoghi con le bestie feroci.

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Su Affaritaliani si scrive: «Lo stesso ministro rischia grosso nel collegio di Napoli Fuorigrotta, che è il paracadute per il ministro degli Esteri per sperare di tornare in Parlamento. Il collegio è storicamente di centrosinistra, anche alle amministrative, ma la forza del Movimento 5 stelle in Campania potrebbe far vincere il centrodestra mandando a casa Di Maio».

Comunque il nostro Talleyrand alle vongole non deve spaventarsi troppo. Sugli spalti del San Paolo c’è ancora tanto posto (e tanta gente bisognosa di bibite).

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Su Formiche Gabriele Carrer scrive: «Gli esperti hanno scoperto che le joint venture sino-europee sono attive in tutti e dieci i settori tecnologici Made in China 2025; nell’80 per cento dei casi nel campione considerato, la società madre europea detiene una quota di minoranza; nel 25 per cento il rischio di coinvolgimento dello Stato cinese nella joint venture è considerato “alto”; nel 25 per cento il trasferimento di tecnologia è considerato un elemento “probabile”. Tra le 20 joint venture del campione non ne figurano che coinvolgano l’Italia, primo e unico paese del G7 ad aderire alla Via della Seta nel 2019, intesa che a distanza di tre anni sembra essere stata abbandonata da Roma con il governo Draghi. Figura al sesto posto in Unione Europea per investimenti in Cina con 4,6 miliardi di euro. In totale, la mappa Eu-China Joint Venture Radar conta 1.270 investimenti, oltre metà dei quali nei settori dei prodotti di consumo e servizi (35,75 per cento) e macchinari (18,82 per cento)».

Il quadro illustrato da Carrer induce a riflettere su due questioni. Da una parte si deve considerare come nel definire una politica di contenimento dell’influenza di un regime così chiuso e insieme egemonistico come quello di Pechino, ma anche così importante nell’economia globalizzata, si debba cercare di combinare contrasto e cooperazione. Il prezzo di rotture radicali non sarebbe pagato solo dai cinesi. Dall’altra non sarebbe male riflettere sul ruolo dell’attuale iperatlantista Luigi Di Maio che per un lungo periodo da vice primo ministro del Conte 1 e poi da ministro degli Esteri del Conte 2 e del governo Draghi ha applicato la politica filocinese del suo (allora) leader Beppe Grillo.

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