Taiwan? La Cina è pronta alla guerra anche per i microchip
La guerra dei microchip
La partita dei microprocessori è estremamente complessa: l’industria è una delle più redditizie del pianeta, con margini che toccano anche il 30 per cento. La produzione però è molto onerosa e sono pochissime le aziende che progettano microchip in grado anche di costruirseli in casa. Nella fattispecie, sono solo quattro, due americane e due sudcoreane: Intel, Samsung, Hynix e Micron.
Tutte le altre aziende di microprocessori come Nvidia, Amd, Qualcomm, Marvell e molte altre li progettano in casa ma li fanno costruire a Taiwan. E precisamente a una sola azienda di Taiwan: la Tsmc. Allo stesso tempo, è impossibile produrre i microchip indispensabili a realizzare sistemi di intelligenza artificiale, all’industria bellica, tecnologica e automobilistica senza macchinari all’avanguardia di produzione europea e giapponese e senza le terre rare di cui la Cina ha il monopolio. Nella guerra dei microchip, insomma, basta poco per far saltare il banco mondiale.
Gli Usa vogliono soffocare la Cina
Lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti è iniziato in sordina nel 2017 ed è deflagrato nel 2020, quando il principale produttore cinese di microprocessori, la Smic di Shanghai, è stata inserita nella lista delle entità che non possono acquistare microchip americani di ultima generazione. Da allora, la lista è stata continuamente aggiornata e allungata dagli Usa con altre entità cinesi.
A fine 2022 l’amministrazione Biden ha poi vietato l’esportazione in Cina di microchip avanzati, coinvolgendo nell’operazione anche Olanda e Giappone, i principali produttori dei macchinari necessari alla manifattura dei gioiellini tecnologici. Contemporaneamente, ha stanziato 52,7 miliardi di sussidi per aumentare la produzione domestica con l’obiettivo di surclassare le aziende cinesi.
Pechino resiste alle pressioni Usa
Quando però lo scorso agosto Huawei e Smic hanno annunciato la nuova serie di smartphone Mate 60 con un microchip a 7 nanometri, Washington si è resa conto di non essere riuscita ad annientare l’avanguardia tecnologica cinese come aveva previsto e sperato.
Così, nell’ottobre 2023, gli Usa hanno rafforzato le restrizioni all’export per evitare l’aggiramento delle precedenti misure. Se Nvidia, tra i principali produttori di microchip al mondo, a partire dalla fine del 2022 non ha più potuto esportare in Cina i suoi prodotti più potenti, A100 e H100, alla fine del 2023 ha dovuto fermare l’export anche dei microchip A800 e H800, inferiori dal punto di vista tecnologico e disegnati apposta per sfuggire alle precedenti restrizioni.
Pochi giorni fa, i regolamenti sono stati ulteriormente rivisti ed è stata proibita l’esportazione in Cina anche di quei prodotti finiti che contengono i microprocessori messi al bando negli anni precedenti.
Il Dragone aggira le restrizioni americane
Ma le mosse americane potrebbero non bastare a fermare la Cina. La Smic di Shanghai ha da poco annunciato la produzione di microchip a 5 nanometri per Huawei, l’ultimo passo prima di raggiungere quelli più avanzati a 3 nanometri utilizzati nei migliori iPhone.
Fino a un anno fa si riteneva che produrli senza le ultramoderne macchine Euv dell’azienda olandese Asml fosse impossibile. Ma è probabile che la Cina stia utilizzando vecchie macchine per raggiungere lo stesso obiettivo, sobbarcandosi costi proibitivi con il sostegno dello Stato.
È anche possibile che la Cina stia efficacemente riuscendo ad aggirare le sanzioni. Secondo l’agenzia Reuters, infatti, l’anno scorso università e centri di ricerca cinesi, insieme a un ente legato all’esercito del Dragone, sono riusciti ad acquistare sul mercato nero piccoli lotti dei microchip Nvidia più potenti, se pur a prezzi esorbitanti.
La Cina risponde agli Usa
Pechino non è rimasta a guardare mentre gli Stati Uniti cercavano di metterla fuori gioco nella tecnologia che più di tutte determinerà il futuro del pianeta. L’anno scorso ha introdotto misure per limitare le esportazioni negli Stati Uniti di gallio, germanio e grafite, materie prime di cui detiene il monopolio e che sono indispensabili per la realizzazione dei microchip e per la produzione delle batterie per le auto elettriche.
Il Dragone ha anche vietato l’acquisto di microprocessori dall’americana Micron e iniziato a sostituire i prodotti americani di Intel e Amd con altri nazionali in tutti i computer e server governativi. Anche i software di Microsoft verranno progressivamente messi al bando nelle strutture pubbliche cinesi, in attesa che la misura venga estesa anche al settore privato.
Xi Jinping è pronto a tutto
Come intuibile, la guerra dei microchip sta facendo perdere centinaia di milioni ad aziende americane come Nvidia e Amd, così come alla olandese Asml, che dominavano il mercato cinese. Allo stesso modo, le aziende cinesi nel settore dei microchip sono in difficoltà, costrette a stare al passo con i concorrenti occidentali senza i mezzi appropriati per farlo.
Mentre una ridda di sanzioni e controsanzioni vengono prese da Cina e Stati Uniti per salvaguardare la «sicurezza nazionale», la catena di approvvigionamento si indebolisce in un processo dove tutti sembrano uscire perdenti.
Vincere la sfida dei microchip significa dominare e indirizzare il progresso tecnologico. Né la Cina né gli Stati Uniti possono permettersi di perderla ed è per questo che Xi Jinping ha equiparato nella telefonata con Biden il tema commerciale a quello di Taiwan. Se gli Usa continueranno a «sopprimere lo sviluppo del settore high-tech cinese e a privare la Cina del suo diritto allo sviluppo, non resteremo a guardare», avrebbe detto Xi al presidente americano. La guerra dei microchip ha il potenziale per trasformarsi in guerra a tutti gli effetti.
Foto Ansa
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