Tentar (un giudizio) non nuoce
Cosa significa per noi la sfida Biden-Trump
E così sembra veramente che le elezioni americane del 5 novembre 2024 rivedranno il confronto tra Joe Biden e Donald Trump in una sorta di rivincita di quanto è accaduto quattro anni fa. Perlomeno formalmente le nomination appaiono già acquisite, seppur una ventina di Stati non si sono ancora pronunciati. Un finale oramai inevitabile dopo gli esiti del Super Tuesday, in cui è andato al voto il maggior numero di Stati per le primarie. Naturalmente sino alle convention che si terranno tra luglio e agosto, qualcosa potrà ancora cambiare, perché i delegati teoricamente possono ancora decidere diversamente, ma non si vede all’orizzonte l’emergere né di un nuovo leader, né tantomeno di una nuova classe dirigente, in entrambi gli schieramenti. Assisteremo quindi al confronto tra due candidati, uno ottantunenne e l’altro settantasettenne che si accusano vicendevolmente di essere vecchi e bolliti.
Perché siamo arrivati a questo punto? È difficile dare una risposta, però alcuni elementi si possono individuare. Innanzitutto, la prima condizione è che gli Usa dopo il 2008 e la crisi dei subprime e del mercato immobiliare, nell’America più profonda qualcosa è cambiato, portando alla radicalizzazione delle posizioni. I repubblicani hanno abbandonato la linea moderata, tutto sommato centrista, di George W. Bush per imboccare una deriva più conservatrice e radicale, iniziata con le riunioni dei Tea Party sulle politiche economiche e fiscali per diventare poi una vera e propria posizione politica espressione di un malcontento diffuso. Malcontento che è largamente presente in molti strati della popolazione, che ha visto ridursi il potere d’acquisto, aumentare i costi dei mutui e crescere l’incertezza.
Scontro radicale
Trump nel 2016 ha saputo raccogliere questo malcontento e si è trovato, anche per l’imprevista debolezza di Hillary Clinton, che ha scontato una sua antipatia endemica, quasi improvvisamente presidente. Negli anni successivi il tycoon ha cercato in tutto i modi di consolidare il proprio consenso, all’intero del partito repubblicano e dell’opinione pubblica, con le forme più aggressive che conosciamo, incluso il tentativo di assalto a Capitoli Hill, ma anche conquistandosi il partito e schierandolo sulla sua linea politica, che oggi è largamente maggioritaria. Una strategia basata essenzialmente su uno scontro radicale con le posizioni dei democratici, una moralizzazione estrema sugli interessi nazionali, sul contrasto all’immigrazione e sull’idea che l’Europa debba arrangiarsi da sola, spostando l’attenzione quasi integralmente sullo scenario dell’indo-pacifico anziché su quello atlantico. Questo ha tolto spazio e possibilità a candidati alternativi.
Dall’altra parte Biden, unico candidato alle primarie, è stato ritenuto dai democratici, nonostante tutti i suoi limiti, l’unica figura in grado di poter sconfiggere Trump.
Una campagna elettorale feroce
A cosa porterà tutto questo? Innanzitutto, probabilmente, alla più dura e feroce campagna elettorale degli ultimi decenni. Le premesse sono già state ampiamente rivelatrici. Il discorso sullo Stato dell’Unione di Biden di qualche giorno fa, più che un discorso istituzionale è apparso un vero e proprio comizio elettorale, in cui il presidente ha voluto dimostrare sia nei contenuti, sia nei toni, che lui non è affatto vecchio, bolso e bollito. È facile immaginare che questa contesa frontale proseguirà.
In secondo luogo, chiunque vinca consoliderà questo arroccamento sugli interessi nazionali, ovviamente ancora più incisivo se a vincere sarà Trump, ma anche nel caso di Biden non insignificante. È evidente che l’elettorato americano è preoccupato delle questioni interne e del proprio ruolo del mondo. Teme il confronto e anche il potenziale conflitto, per ora solo economico, con la Cina e sposta la propria attenzione sull’indo-pacifico.
Contemporaneamente l’influenza americana nel mediterraneo e nell’area atlantica si riduce, ne abbiamo avuto un esempio con il difficile rapporto con Israele durante il conflitto con Hamas, e con le crescenti perplessità a continuare il sostegno all’Ucraina in guerra. Questo aumenterà la responsabilità dell’Europa, soprattutto in campo militare, forse potrebbe favorire anche decisioni che si sarebbero dovuto già prendere, come quella di un esercito comune, ma certamente nel breve periodo rischia di sguarnire la capacità di difesa del nostro continente.
Come finirà?
Chi vincerà? Difficile dirlo oggi. I sondaggi danno Trump in vantaggio di 4, 5 punti, ma molto dipenderà da cosa accadrà da qui a novembre. Biden ha ancora frecce al suo arco, ad esempio non è ancora riuscito a convincere gli americani che l’economia sta riprendendo e sta andando bene, anche se è possibile che nei prossimi sei mesi questa narrazione sostenuta da fatti conseguenti, con una puntuale e martellante comunicazione, possa portare gli americani a guardare in modo diverso l’assetto del Paese rispetto ad oggi.
Staremo a vedere, ma, da un certo punto di vista, queste sono le elezioni che ci interessano di più, perché chi governerà nei prossimi quattro anni il Paese più importante del mondo non può esserci indifferente, ma al tempo stesso è del tutto chiaro che, chiunque sarà il vincitore, si occuperà di meno degli affari europei, figuriamoci di quelli italiani.
Una ragione in più per ridare slancio e contenuto all’idea di un’Unione Europea forte, attiva e coesa, anch’essa chiamata a un voto, per noi questa volta ancor più decisivo, qualche mese prima.
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